Uccise il vicino di casa a Roma per sfuggire alla vendetta del clan, confermata la condanna a 18 anni per giovane vibonese
Dall’inchiesta Eureka, dalle dichiarazioni del collaboratore Walter Loielo e da una rogatoria internazionale la sconvolgente verità sul delitto all’ombra del narcotraffico e del furto di 110 chili di cocaina
La Suprema Corte (prima sezione penale) ha confermato la condanna a 18 anni di carcere nei confronti di Giovanni Nesci, 27 anni, di Sorianello, nel Vibonese, accusato dell’omicidio di Fabio Catapano, il 48enne ucciso il 17 luglio 2020 a Castel di Leva, nell’agro romano. I giudici della Cassazione hanno infatti rigettato il suo ricorso avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Roma il 13 giugno 2023. Dalle sentenze di merito, pienamente convergenti, è emerso che la mattina del 17 luglio 2020 Giovanni Nesci ha ucciso Fabio Catapano, a Roma, nei pressi della sua abitazione, ubicata in Via Sparanise, esplodendo al suo indirizzo sei colpi di una pistola calibro 6,35, arma detenuta illegalmente, che attingevano la vittima alle spalle e alla regione ascellare, provocandone il decesso immediato.
Il furto di 110 chili di cocaina
I fatti di reato sono stati accertati grazie alle dichiarazioni confessorie dell'imputato che, il giorno del delitto, si presentava presso la Stazione dei Carabinieri di Roma Divino Amore, riferendo ai militari di "avere combinato un casino" e di avere ucciso un vicino di casa, Fabio Catapano, per futili motivi, indicando il luogo dove si trovava il cadavere. Dopo essersi costituito presso le forze dell’ordine, Giovanni Nesci ha consegnato spontaneamente l'arma utilizzata per uccidere la persona offesa la mattina del 17 luglio 2020, precisando che si era procurato la pistola clandestinamente. Giovanni Nesci, imbianchino, si era trasferito nel 2020 a Castel di Leva, periferia di Roma, occupando unitamente ad altri tre calabresi una villetta sfitta. Si trovava a cena dalla vittima insieme ad un amico quando la sera del 17 luglio 2020 nella cameretta di Nesci sarebbe stato consumato un furto di cui i calabresi avrebbero accusato Catapano, poi ucciso in strada a colpi di pistola dopo essere stato chiamato da Nesci ad uscire di casa.
Per Nesci l’accusa era quella di omicidio volontario. Una vicenda passionale, secondo Giovanni Nesci, ma gli investigatori non gli hanno mai creduto. “L’ho ucciso perché pensava avessi una storia con la compagna”, le parole del ragazzo di Sorianello prima di chiudersi nel silenzio davanti al pm e al gip. In primo grado ed anche in appello, i giudici hanno escluso la premeditazione nel fatto di sangue. Dalla successiva inchiesta denominata Eureka della Dda di Reggio Calabria è tuttavia emersa un’altra verità: Giovanni Nesci e il fratello Francesco avrebbero custodito a Roma un carico di 110 chili di cocaina per conto del clan Mammoliti di San Luca. Carico sparito però dalla villetta dei Nesci e che aveva mandato su tutte le furie i Mammoliti. La ricerca frenetica di elementi utili a individuare gli autori del furto – evidenzia la Cassazione – era proseguita anche nei giorni successivi alla sparizione, con il coinvolgimento del cugino del ricorrente, Giovanni Nesci, detto "Alex", anche lui di Sorianello. L’imputato Giovanni Nesci avrebbe quindi sospettato del furto il vicino di casa e, temendo di non essere creduto dai Mammoliti, ha ucciso Fabio Catapano. Per la ricostruzione degli eventi, importanti si sono rivelate le intercettazioni disposte nei confronti di alcuni soggetti vicini sia all’imputato che alla vittima.
La ritorsione e le dichiarazioni del collaboratore Loielo
Per la Cassazione – che ha depositato le motivazioni della decisione – è rimasto così accertato che «l'assassinio di Fabio Catapano costituisce dunque un atto di ritorsione effettuato dall’imputato Giovanni Nesci in danno della vittima, per punirla del furto subito, che aveva messo il ricorrente in difficoltà con i soggetti (i Mammoliti di San Luca) nell'interesse dei quali deteneva, presso la sua abitazione, la partita di stupefacente e le somme di denaro sottrattegli. L'omicidio, al contempo, avrebbe messo Giovanni Nesci al riparo da possibili vendette degli esponenti della criminalità organizzata 'ndranghetistica dei quali aveva violato la fiducia, subendo inopinatamente il furto».
Tali conclusioni, ad avviso della Suprema Corte, sono state ritenute «ulteriormente corroborate dalle dichiarazioni accusatorie rese dal collaboratore di giustizia Walter Loielo, secondo cui Giovanni Nesci, che conosceva personalmente, custodiva una partita di stupefacente e una cospicua somma di denaro per conto della cosca 'ndranghetistica Loielo, all'interno della sua abitazione. Si muovevano, infine, nella stessa direzione probatoria – hanno aggiunto i giudici della Cassazione – gli esiti delle captazioni eseguite nei confronti di un esponente di spicco della criminalità organizzata albanese, effettuate con il sistema "Sky", che erano state acquisite mediante rogatoria internazionale presso l'autorità giudiziaria francese, dalle quali emergeva che Fabio Catapano era stato assassinato per uno sgarbo effettuato al ricorrente Giovanni Nesci, collegato all'ambiente del traffico di sostanze stupefacenti». L’imputato è stato condannato anche al risarcimento del danno in favore delle parti civili: Monica Fratini (moglie della vittima), Daniela Ruspantini, Patrick Catapano, Daniele Catapano e Marco Catapano, oltre alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute in giudizio.