La sentenza

Operazione Rimpiazzo: le denunce delle parti offese portano alla condanna di Rosario Battaglia

Vittima di estorsione anche la società Pubbliemme che con l’imprenditore Domenico Maduli si è costituita parte civile nel processo. Per i giudici è stata «riscontrata la complessiva attività estorsiva dei Piscopisani in danno di Maduli». Le gravi minacce nei confronti del titolare della società

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di Giuseppe Baglivo
13 luglio 2022
15:18

Regge in pieno il reato di associazione mafiosa nel processo nato dall’operazione Rimpiazzo contro il clan dei Piscopisani. Si tratta di una sentenza storica perché – al pari del troncone celebrato con il rito abbreviato e che si trova già in appello – viene affermata in sede giudiziaria l’esistenza di un nuovo “locale” di ‘ndrangheta di recente formazione (nato intorno al 2008) operante nel Vibonese e, nel caso specifico, nella frazione Piscopio di Vibo Valentia, con competenza territoriale anche su Vibo Marina. Secondo le motivazioni della sentenza del Tribunale collegiale di Vibo Valentia, al fine di provare l’esistenza dell’associazione mafiosa, importanti si sono rivelati i singoli reati-fine contestati e, fra questi, quelli di estorsione, alcuni svelati grazie pure alle denunce delle parti offese.

«La sistematica attività criminale del sodalizio quale emerge in maniera univoca dalla perpetrazione di azioni di sangue e dall’esame dei c.d. reati-scopo dimostra come il sodalizio abbia in concreto manifestato una capacità di intimidazione effettivamente percepita come tale ed abbia conseguentemente prodotto un assoggettamento omertoso nel "territorio" di interesse dei Piscopisani». A rompere tale omertà, in alcuni casi sono state le denunce delle parti offese, alcune costituite poi parti civili nel processo. E’ il caso dell’imprenditore Domenico Maduli, presidente del Consiglio di amministrazione della Pubbliemme, vittima delle pretese estorsive del clan dei Piscopisani e le cui denunce hanno portato alla condanna di Rosario Battaglia, riconosciuto quale vertice assoluto della consorteria mafiosa di Piscopio. L’escalation criminale – ricostruita dal Tribunale in sentenza – inizia con l’esplosione di diversi colpi d’arma contro la saracinesca della sede vibonese della società. «Chiara la chiamata in correità del collaboratore Raffaele Moscato – spiega il giudice Tiziana Macrì in sentenza – nei confronti di Rosario Battaglia in ordine all’esecuzione del danneggiamento oltre che alla causale: l’acquisizione forzosa di entrate nel settore pubblicitario e le relative utilità unitamente a Giuseppe Lo Giudice. E’ stato Moscato nl 2007 e nel 2008 a partecipare con Battaglia al danneggiamento della saracinesca a colpi d’arma da fuoco. Rileva a riscontro – sottolinea il Tribunale in sentenza – quanto riferito dal Maduli con specifico riferimento al ruolo di Battaglia ed alla visita il giorno precedente effettuata da Battaglia e da Lo Giudice. Le dichiarazioni del collaboratore Andrea Mantella – scrivono ancora i giudici – riscontrano ulteriormente la complessiva attività estorsiva dei Piscopisani in danno di Maduli».


È emerso infatti che Rosario Battaglia – vertice del clan – unitamente a Giuseppe Lo Giudice si è recato a Vibo Marina nello studio fotografico di Francesco Maduli, fratello di Domenico. All’invito di Francesco Maduli ad uscire fuori, Rosario Battaglia ha esclamato: “Va bene, ci vedremo dopo”. Ed infatti puntuali arrivano nella notte i colpi di pistola alla saracinesca dello studio fotografico. Ma non solo: Domenico Maduli doveva morire, per come raccontato allo stesso da Rosario Battaglia che «in un’occasione gli disse che avrebbe dovuto ucciderlo e non aveva capito perché non l’avesse ancora fatto poiché non aveva ancora accondisceso alle sue richieste». Tale ultima circostanza – il dover essere ammazzato – per il Tribunale trova riscontro anche nelle dichiarazioni rese in aula nel corso del processo da Maria Grazia Falduto, compagna di Domenico Maduli e direttore generale della società Pubbliemme presa di mira dai Piscopisani. A rivolgere due richieste di somme di denaro a Maduli nel 2010, per i giudici è stato Nicola Barba, il quale avrebbe però detto che si trattava di un “regalo” per il boss di Nicotera e Limbadi, Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”. Per il Tribunale è provato che è stato Andrea Mantella – all’epoca al vertice di un autonomo gruppo mafioso operante a Vibo Valentia e staccatosi dalla “cosca-madre” dei Lo Bianco-Barba – a suggerire ai cugini Nicola e Franco Barba a chi l’imprenditore Maduli dovesse pagare l’estorsione, cioè se a Pantaleone Mancuso come pretendeva Nicola Barba oppure al clan dei Piscopisani. «Andrea Mantella – spiegano i giudici in sentenza – nel chiarire ai Barba che in quel momento erano in forze i Piscopisani, suggeriva ai Barba di pagare ai Piscopisani. Gli importi da versare ammontavano a 10-15 mila euro. In effetti Mantella apprese da Rosario Battaglia, in occasione di uno dei loro numerosi incontri, che le somme indicate furono consegnate ai Piscopisani ed in specie Rosario Battaglia dimostrò compiacimento ad Andrea Mantella per il consiglio dato a Nicola Barba». Per il Tribunale è dunque provato che l’imprenditore Maduli rimase vittima di estorsione «da parte di Rosario Battaglia, vertice del sodalizio dei Piscopisani» contro il quale si è costituito parte civile nel processo confermando in aula le accuse e determinando così la sua condanna.

Per i giudici anche dalle dichiarazioni del collaboratore Raffaele Moscato, elemento di spicco proprio del clan dei Piscopisani, «emerge l’interesse della consorteria per la società del Maduli ai fini dell’acquisizione di profitti illeciti mediante attività estorsiva» ed il danneggiamento della saracinesca a colpi di pistola era avvenuto perché «Maduli non aveva favorito Battaglia nel settore della pubblicità», settore dove Battaglia avrebbe operato attraverso una propria agenzia pubblicitaria di Giuseppe Lo Giudice, «una persona di Piscopio che – secondo Moscato – è stata sempre vicina ai Piscopisani». Il Tribunale sottolinea poi in sentenza che «le dichiarazioni della Falduto forniscono una descrizione dettagliata dell’atteggiamento di Rosario Battaglia nei loro confronti e quelle di Mantella riscontrano ulteriormente circa la complessiva attività estorsiva dei Piscopisani in danno di Maduli». Per i giudici, quindi, «le modalità di esternazione della minaccia presentano i connotati tipici dell’estrinsecazione della forza di intimidazione del gruppo dei Piscopisani in termini tali da rendere pacifica la riconducibilità agli imputati del danneggiamento perpetrato nonchè del connesso reato in materia di armi. Lo Giudice, soggetto che, se pure non intraneo, condivide gli interessi del gruppo e di Rosario Battaglia, è presente nel momento dell’esternazione della minaccia con ciò rafforzando l’altrui proposito criminoso». Giuseppe Lo Giudice è stato condannato nel processo Rimpiazzo a 6 anni di reclusione, più di quanto aveva chiesto lo stesso pm (5 anni e 4 mesi) ed anche per lui – al pari di Battaglia – viene riconosciuta l’aggravante mafiosa della condotta.

L’assoluzione di Nicola Barba

Perché viene invece assolto Nicola Barba? Non certo per le tesi sostenute dalla difesa dell’imputato, vale a dire il fatto che il loro assistito si è dichiarato nel corso del processo “socio” della società di Maduli. Nulla di tutto questo per il Tribunale che – non a caso – ha respinto nel corso del processo il confronto in aula chiesto da Nicola Barba e dai suoi difensori con la parte offesa Maduli. Lo stesso pm della Dda, Andrea Mancuso, aveva sottolineato che ci si trovava dinanzi a dichiarazioni infondate di Nicola Barba, prive di alcun riscontro non sapendo l’imputato indicare neanche la cifra per la quale si dichiarava socio e non esistendo alcuna documentazione comprovante le sue affermazioni. 

Scrive il Tribunale in sentenza: «Il ruolo di Nicola Barba nell’estorsione a Maduli risulta, in primo luogo, dalle dichiarazioni del Moscato il quale riferisce del ruolo di intermediario tra i Piscopisani che pretendevano l’estorsione ed il Maduli».

Dalle dichiarazioni dei collaboratori Moscato e Mantella emerge tuttavia che «il ruolo di intermediario di Barba Nicola sia stato a quest’ultimo violentemente imposto e non liberamente scelto e voluto. Ne può ritenersi che il Barba abbia speso con il Maduli una propria caratura criminale». Per i giudici, infatti, «Nicola Barba risulta estraneo al sodalizio dei Piscopisani, talchè è illogico ipotizzare che possa avere agito nell’interesse di quel sodalizio. Deve, quindi, escludersi l’affermazione della responsabilità di Nicola Barba in ordine alla contestazione in oggetto».

Non escluso che nei confronti di Nicola Barba, 69 anni, di Vibo Valentia, la Dda di Catanzaro presenti appello avverso l’assoluzione, atteso che nei suoi confronti aveva chiesto la condanna ad 8 anni di reclusione. Lo stesso Nicola Barba si trova attualmente sotto processo anche per l’operazione Rinascita Scott con l’accusa di usura aggravata dal metodo mafioso.

Per quanto attiene invece l’estorsione contestata a Pantaleone Mancuso, alias Scarpuni, per il Tribunale ci si trova solo dinanzi ad altre persone che hanno speso il suo nome nel richiedere denaro all’imprenditore Maduli ed il fatto che l’estorsione sia stata poi portata a termine dal clan dei Piscopisani (e non dal clan Mancuso) esclude «un’effettiva gestione della vicenda da parte di Pantaleone Mancuso» e da qui la sua assoluzione.

Il rifiuto dell’imprenditore Maduli alle richieste di Moscato

Per altro capo di imputazione per estorsione ai danni di Domenico Maduli, contestato invece a Rosario Battaglia ed a Raffaele Moscato, si è registrata l’assoluzione degli imputati. In questo caso, secondo la sentenza, Raffaele Moscato si è recato da Maduli chiedendo all’imprenditore che gli cambiasse in denaro contante un assegno da diecimila euro per conto di Rosario Battaglia il quale avrebbe ordinato a Moscato di «buttare due schiaffoni a Maduli in caso di rifiuto perché doveva cambiare l’assegno per forza». L’imprenditore oppose però un netto rifiuto a tale pretesa cogliendo di sorpresa Moscato il quale, meravigliato per l’atteggiamento di diniego del Maduli, e pensando di essere intercettato, non portò a termine il proposito del pestaggio. I fatti così ricostruiti, per il Tribunale se da un lato confermano la piena credibilità sia di Moscato che del denunciante Domenico Maduli, non bastano ad integrare il reato di estorsione in quanto «la fattispecie non si è perfezionata nei termini contestazione. Invero – scrivono i giudici in sentenza – si tratta di una programmazione delittuosa che non si è estrinsecata in concreti atti esecutivi».

Giornalista
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