Il maxiprocesso

Rinascita, Cannatà: «A Vibo in tanti aspettavano la scarcerazione di Luigi Mancuso per sistemare gli attriti»

Continua la deposizione del pentito: «Non l'ho mai conosciuto di persona ma me ne hanno parlato come il capo del clan di Limbadi». Spazio anche per il rosarnese Domenico Bellocco e l'accoglienza che gli fu riservata all'ospedale Jazzolino (ASCOLTA L'AUDIO)

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di G. B.
14 ottobre 2021
19:16
Luigi Mancuso durante il periodo di detenzione
Luigi Mancuso durante il periodo di detenzione

Sarebbero stati in molti a Vibo e nel Vibonese ad attendere la scarcerazione del boss Luigi Mancuso – libero dal luglio del 2012 dopo 19 anni di ininterrotta detenzione – per “sistemare” questioni irrisolte, ad iniziare dagli assetti criminali. Gaetano Cannatà, nel corso della sua deposizione al maxiprocesso Rinascita Scott, ha raccontato delle confidenze ricevute da diverse persone a lui vicine.

«Mio cugino Carmelo D’Andrea era fra quelli che auspicavano la scarcerazione di Luigi Mancuso perché diceva che era l’unico in grado di sistemare gli attriti esistenti nella città di Vibo in seno alla ‘ndrangheta. Io non ho mai conosciuto personalmente Luigi Mancuso – ha dichiarato Cannatà – ma ricordo che pure Michele Palumbo mi parlò di lui come il capo del clan Mancuso. Michele Palumbo ha fatto da compare a mio figlio, faceva l’assicuratore ed è stato ucciso a casa sua a Longobardi. Palumbo era in ottimi rapporti con Pantaleone Mancuso, detto Scarpuni, ed è stato Palumbo a dirmi che Scarpuni era il nipote del capo storico Luigi Mancuso. Ricordo che una volta – ha aggiunto Cannatà – quando gestivo un autolavaggio a Vibo Marina, Palumbo mi lasciò due pistole e disse che le armi erano di Pantaleone Mancuso, Scarpuni. Poi lo stesso Palumbo, dopo qualche giorno, passò a riprendersi le pistole. In altra occasione ho conosciuto personalmente Pantaleone Mancuso perché gli lavai una pala meccanica e ricordo – ha spiegato il collaboratore – che lui a lavoro finito passò dall’autolavaggio e mi mise centomila lire nel taschino della camicia». Cannatà ha poi aggiunto che altro suo amico di nome «Ciro Carmelo stava aspettando pure lui la scarcerazione di Luigi Mancuso per risolvere un problema con alcune persone di Nicotera, i Cicerone, che erano nipoti di Antonio Mancuso. Un’altra volta Carmelo Ciro mi disse – ha ricordato Cannatà – che nella sua struttura o nella sua abitazione aveva ospitato Pantaleone Mancuso, Scarpuni».

Scorrendo quindi l’album fotografico, Cannatà ha riconosciuto Rosario Fiarè e Domenico Bonavota (ma non ha saputo indicare nulla sul loro conto), mentre non ha riconosciuto Gregorio Giofrè. Ha invece riconosciuto Saverio Razionale, dichiarando che gli era stato presentato a Vibo «da Vincenzo Franzone in quanto i due erano amici». 


Bellocco e l’accoglienza in ospedale a Vibo

Cannatà ha quindi raccontato della sua amicizia sin dall’infanzia con Domenico Bellocco, dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Rosarno. «Stava male e doveva essere spostato dall’ospedale di Polistena a Vibo Valentia. Bellocco chiamò allora mio fratello Francesco che però in quel periodo era a Perugia, quindi mi interessai io della sua venuta a Vibo. Ho subito avvertito – ha sottolineato il collaboratore – mio cugino Carmelo D’Andrea il quale aveva delle amicizie in ospedale. Ad accogliere Bellocco all’arrivo in ospedale si presentarono Domenico Camillò ed Enzo Barba».

I dissapori fra i fratelli D’Andrea

Gaetano Cannatà ha infine accennato ai dissapori fra i fratelli Carmelo e Giuseppe D’Andrea. «Carmelo D’Andrea nel 2007 era stato arrestato e poi condannato per l’operazione Nuova Alba. Quando uscì dal carcere, molte persone che lo incontravano lo salutavano dicendogli che durante la detenzione gli avevano inviato del denaro per il sostentamento. Carmelo D’Andrea ringraziava, anche se soldi in carcere non ne aveva ricevuti. Aveva capito quindi – ha concluso Cannatà – che i soldi se li era tenuti suo fratello Giuseppe. Per questo fatto i due fratelli per diverso tempo non si sono parlati».

Giornalista
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