La donna della quale voglio raccontarvi non ha vissuto nemmeno trent’anni, ma ha combattuto, con tutte le sue forze, non solo contro le ingiustizie della società del primo Novecento niente affatto benevola con le donne, ma anche contro il destino avverso. Così come faceva dichiarare alla sua eroina - Caterina Marasca - il nome e il cognome ad alta voce, altrettanto facciamo noi con lei: Giovanna Gulli.

La giovane allampanata dai capelli rossi, che da Reggio Calabria giunge a Milano, si porta, sulle spalle esili e nel cuore pesto, un pesante fardello. Il tracollo finanziario del padre ha scavato una voragine profonda dentro di lei e le molestie del suo datore di lavoro le hanno fatto capire che le donne, soprattutto al Sud, non sono altro che veri e propri oggetti sessuali nelle mani di chi detiene un qualunque potere.

Per fortuna, lei ha il suo daimon a guidarla, la scrittura, una febbre che la farà sopravvivere. Ha lasciato la sua Terra forte, Giovanna, ha lasciato il mare e la sua breve infanzia felice, gli studi; non ha lasciato la disperazione che si somatizza nella smorfia crudele delle sue labbra. La grande città finisce per divorarla esasperandone fame e solitudine: anche se conosce molti intellettuali calabresi, come Leonida Repaci, non riesce a inserirsi nei circuiti culturali milanesi.

Si sente sola come un cane, anzi come due cani, i protagonisti dei soli racconti che riesce a pubblicare, su rivista: più umani degli esseri umani, ma che vengono odiati, maltrattati, accalappiati. Del primo racconto è protagonista Memmo, figlio fragile di una prostituta altrettanto fragile, geloso del cane che la madre accoglie in casa; del secondo, Un cane, il bastardino Tuffolo che cerca di scappare verso la libertà. Invano. Cercava di capire il perché di quel silenzio e di quella tetra solitudine.

Quello di Giovanna Gulli è un realismo crudo, ha il sapore amaro della miseria che non avrà riscatto: ha letto Verga, Zola, i russi. Il disordine stilistico e la “presunzione” del suo valore, alimentati dal furore dell’ispirazione, saranno duramente criticati. Di una magrezza che si fa notare anche perché non inquina la sua avvenenza, Giovanna, dallo sguardo allucinato, riceve continue porte chiuse in faccia, un calvario che la svuota di energie. Alla fine tuttavia sembra farcela: si prende pure la rivincita con Cesare Zavattini che le aveva rifiutato la pubblicazione del romanzo che ora uscirà per Garzanti; non le importa che si sia ridotta alla fame. L’importante è scrivere e pubblicare, anche se deve apportare tagli al testo originario a causa della censura fascista.

Descrivere la fame non è facile, ma Giovanna, con Caterina Marasca, ci riesce. È la stessa fame che ha provato e che prova lei: te la fa sentire nello stomaco nel quale rimbomba l’eco di una forte denuncia sociale, spettro della povertà. Caterina è la trasfigurazione di Giovanna che in un crescendo di emozioni porta questo spirito ribelle di ragazza all’apice della disperazione. Paradossalmente, pur ladra e mantenuta, Caterina conserva la sua dignità in una società che la respinge.

La malinconia violenta per la vita, la ricerca spasmodica di un editore fiaccano il corpo già provato di Giovanna: il vuoto non è solo nello stomaco, ma vicino al cuore.

Caterina, pensando a quello del padre, considera il suicidio come rimedio estremo; Giovanna rifiuta di andare in ospedale, non vedrà il suo romanzo pubblicato. Diventa preda della tubercolosi polmonare che se la papperà a piccoli bocconi, fino all’agosto del 1939.

Il primo settembre scoppierà la seconda guerra mondiale, ma Giovanna ha già combattuto la sua; contro la fame, contro un destino che si è accanito su di lei, contro il regime oppressivo fascista, contro un sistema economico che ha ridotto il meridione allo stremo, ma, soprattutto, contro una mentalità maschilista che mette ai margini della cultura le donne.

Ha pagato con la vita il conto di essere nata donna, dell’essere diventata, lei, Giovanna Gulli, una scrittrice, a dispetto - pure - di chi, ancora oggi, ignora il suo nome e il suo cognome.