Storie di ricatti

La disperazione di un operaio calabrese: «Pago il pizzo per lavorare, ogni mese restituisco ai capi metà stipendio»

VIDEO | La testimonianza di un padre di famiglia: «Il lavoro in questa terra è quasi sempre sinonimo di sfruttamento. Eppure a volte penso di essere pure fortunato, molti miei coetanei con la crisi sono finiti in mezzo alla strada» (ASCOLTA L'AUDIO)

di Francesca  Lagatta
4 gennaio 2022
12:01

Salvatore non è più un ragazzino e dopo una vita passata a lavorare in nero, ha finalmente trovato un'azienda che gli garantisce una regolare assunzione e un contratto a tempo indeterminato. Oro colato, di questi tempi, soprattutto in quella valle di lacrime che è la Riviera dei Cedri, lavorativamente parlando. Ma la sua gioia è durata fino a quando ha scoperto che la cifra riportata in busta paga è, a dire il vero, è solo un'illusione. I titolari dell'attività per la quale lavora lo hanno ricattato e continuano a farlo tutti i mesi: lo hanno assunto a patto che lui restituisca tutti i mesi più di un terzo dello stipendio. In pratica, ogni mese la società accredita i soldi sul conto corrente del loro dipendente, rispettando in tutto e per tutto le cifre riportate sui documenti, così da non incorrere in sanzioni, ma una volta avvenuto l'accredito Salvatore, nome di pura fantasia, deve prelevare la somma di diverse centinaia di euro e restituirla ai suoi capi, in contanti. Pena, il licenziamento.

La disperazione di un lavoratore

Salvatore è sposato, ha dei figli e quello stipendio è l'unica cosa che lo salva dal precipizio. Con l'arrivo della pandemia, gli altri componenti della sua famiglia hanno perso il lavoro e lui non può permettersi il lusso di alzare la testa innanzi a questo sopruso. «Finirei licenziato in un minuto - dice - non saprei come sfamare la mia famiglia». Salvatore, però, non riesce a smettere di sentirsi complice, più che vittima, e quando cala la notte rimane per ore a guardare il soffitto e rimuginare. Si sente terribilmente in colpa ma è diviso tra due fuochi, da un lato vorrebbe andare alla Guardia di Finanza a denunciare tutto, dall'altro sa di non poter rinunciare al quello stipendio, o meglio, ciò che ne rimane. Per non impensierire la famiglia, ne ha parlato con alcuni amici e, in un certo senso, ha trovato "consolazione".

Quello che subisce lui è prassi consolidata. Di aziende serie e in regola ce ne sono, ovviamente, anche nella Riviera dei Cedri, ma abbondano pure le altre, quelle che sfruttano i lavoratori e pure lo Stato, prendendo gli aiuti piovuti con la pandemia e lasciando ai loro dipendenti solo le briciole e un forte senso di frustrazione. «Sono rimasto stupito - dice ancora Salvatore -, pensavo che la mia fosse una situazione isolata, invece è comune a molti, non ho parole». Non hanno parole nemmeno quelli che sono nella sua stessa situazione e infatti restano muti, subiscono in silenzio nella speranza che domani qualcuno o qualcosa interrompa questo circolo vizioso.


La difficoltà di denunciare

A fermare Salvatore non è solo la paura di essere scoperto e licenziato: «Come lo dimostro che restituisco i soldi ai miei capi? Dovrei informare la Guardia di Finanza e fare da esca nelle indagini, ma che racconto poi ai miei figli? Come glielo dico che non abbiamo pane da mettere in tavola?». Già, perché il timore più grande di Salvatore non è tanto quello di perdere il lavoro che ha adesso, ma di non riuscirne a trovare un alto. Salvatore è una di quelle persone che in Italia è considerata troppo vecchia per lavorare e troppo giovane per andare in pensione. Le possibilità di essere assunto nuovamente in un'altra azienda, dice, sono pari allo zero. Quindi, di fatto, si sente pure un "miracolato". «A volte penso che tutto sommato sono pure fortunato. Molti miei coetanei prima con la crisi economica e poi con la pandemia sono finiti in mezzo alla strada. Molti hanno scelto il compromesso o hanno dovuto intraprendere attività illecite. Sappiamo come va a finire. Io, almeno, la dignità non la voglio perdere».

Il coraggio di parlarne

Così, dopo essersi consultato con alcuni amici, Salvatore ha deciso di raccontare tutto alla stampa - «così non corro il rischio di essere scoperto» - e provare ad accendere i riflettori sull'argomento. «A chi mi legge, voglio dire che il lavoro in questa terra è quasi sempre sinonimo di sfruttamento. C'è gente costretta a lavorare anche se è in cassa integrazione, oppure ci sono persone che lavorano 15 ore al giorno e prendono uno stipendio da lavoratore part-time. C'è gente che è stremata, sfruttata fino all'osso e non può permettersi nemmeno una visita medica per sé o per i figli. Qui sono poche le aziende perfettamente in regola e purtroppo i posti che offrono sono già tutti occupati».

Poi Salvatore fa un'ultima bruciante riflessione: «Fatelo sapere a tutti. Non è vero che noi calabresi non abbiamo voglia di lavorare. La verità è che le aziende ci fanno lavorare in condizioni disumane e senza garanzie. La voglia te la fanno passare e oggi capisco chi sceglie altre vie per campare la famiglia, anche se non li giustifico. Avete idea di che cosa significhi per un uomo dover pagare il pizzo per lavorare, perché di questo si tratta, e togliere i soldi alla propria famiglia?».

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