La recensione

La Zona d’interesse, il buio è sempre oltre la siepe

L'opera di Jonathan Glazer che è in corsa all'Oscar come miglior film Internazionale, riesce nell'impresa di intossicare ad arte lo spettatore chiudendogli gli occhi e spalancando l'abisso sotto di lui

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di Alessia Principe
4 marzo 2024
17:00

Il male non indossa abiti particolarmente scuri. Non ha un’inflessione propria, nemmeno modi sgarbati per consuetudine. Vive mescolato alla folla, invisibile agli occhi, proprio come la bellezza, proprio come la gentilezza. Se lo incontri per strada, saluta con garbo.

Il regista Jonathan Glazer nella Zona d’Interesse – super favorito nella corsa all’Oscar come miglior film internazionale - ci dice due cose: il demone non puzza di zolfo e non sa di essere demone, anzi. Il male è un uomo o una donna con due occhi e due orecchie, ascolta musica, ripiega le lenzuola. Riesce ad essere tenero sfiorando un fiore e a godere della vista di un fiume, con il volto verso il sole, come un monaco tibetano, come un sacerdote shintoista, come un ragazzo all’uscita di scuola. Sa come prendere in braccio un bambino e raccontare storie per far addormentare una figlioletta inquieta. Sa anche sopportare le delusioni, asseconda i capricci di un coniuge, prende il suo lavoro molto sul serio e, se è il caso, si sacrifica pure per la famiglia. Ha paura di ammalarsi e che non lo ritengano all’altezza di un compito. Accarezza un cane che gli ricorda un cucciolo che aveva quando era piccolo. Il male prepara il the alle amiche, prova il rossetto allo specchio, indossa la pelliccia di una donna che sta per essere gassata in un forno, si preoccupa di un trasloco. Il male non si volta dall’altra parte, considera giusto anche l’orrore che si compie perché convinto che sia un bene.


Nella Zona d'interesse, il malvagio appare solo un po’ ingobbito, sgraziato nel portamento, ridicolo nell’acconciatura e nelle movenze, ma è l’unico giudizio che Glazer concede: dipingere l’estetica dei demoni rendendoli grotteschi e goffi, il resto lo lascia agli occhi di chi guarda, anzi alle orecchie. L'autore britannico, aveva già ammaliato il pubblico con "Under the skin", e "Birth - Io sono Sean", opere anomale in cui il suo stile visionario si univa alla capacità di sposare il dubbio, mai la sentenza. E così fa anche qui.

Una famiglia borghese piccola piccola

Nel film - tratto dal romanzo di Martin Amis - seguiamo uno spaccato di vita degli Höss e del capofamiglia Rudolph, comandante di Aushwitz, che la storia dipingerà come uno dei criminali più efferati mai esistiti, meticoloso e puntuale nel difficile mestiere di coordinatore di uno sterminio. Lui è un burocrate, uno scartoffiatore, un mezzemaniche scrupoloso nell’ottemperare al suo ruolo di capo boia. La sua villetta a due piani, deliziosa nei toni pastello, ha l'erba rasata di fresco, il giardino d’inverno, l’orto con i pomodori e le erbe aromatiche, e condivide i muri di cinta - che prima o poi saranno ricoperti di viti e piante rampicanti, appena i ramoscelli teneri avranno il tempo di crescere grazie alle ceneri dei prigionieri usati come fertilizzanti - con il filo spinato che cintura le 25 miglia di Auschwitz.

La graziosa dimora, in cui silenzio è appena macchiato dagli schioppi delle fucili che crepitano a poca distanza per le esecuzioni di massa quotidiane, è il luogo del cuore della signora Höss (Sandra Hüller che abbiamo visto in Anatomia di una caduta). Da signorina era solo la figlia di una cameriera («chissà se la signora ebrea da cui facevo le pulizie è qui nel campo, pensa che organizzavano un gruppo di lettura, roba da ebrei» si domanda la mamma in visita, salutando i nipotini), adesso è la potente moglie di un comandante stimato dal Fuhrer in persona, una wohlhabende Dame orgogliosa della sua scalata sociale («mi chiamano la regina di Auschwitz»), e sogna per i suoi figli un futuro lì, a due passi dalla radura boscosa bagnata da un fiume placido.

Un gioco di sinestesia

Il regista prova a mostrarci l’estrema crudeltà, ma in sottrazione. Ci pone al di qua del muro, posto meno frequentato dell’altra parte, e ci chiede di ascoltare, ma di farlo con grande attenzione perché lui non ci farà vedere proprio nulla. E tendendo l'orecchio, le urla dei prigionieri in lontananza, finiscono per diventare un rumore assordante, anche se si percepiscono appena. È una forma anomala di sinestesia: si attenua un senso (la vista dell'orrore all'interno del campo), ma allo stesso tempo l'immaginazione costruisce da sé ciò che non vede, con risultati ancora più angoscianti.

Come il mal d'auto

È una mossa sadica quella di Glazer. Ci affida al senso dell’udito per creare una reazione simile alla chinetosi, quella che provoca il mal d’auto, quando il nostro cervello viene ingannato dalle sollecitazioni che lo inducono a pensare che ci stiamo muovendo mentre siamo fermi. Stiamo vedendo una famiglia serena che gioca in piscina o tra i fiori che esplodono nei loro colori accesi, e invece no, stiamo assistendo a una cremazione di massa. L’effetto è venefico, potente e (ed ecco il sadismo di Glazer) prolungato. Come gli assassini raffinati, il regista ci farà del male e non sarà una cosa veloce.

L’autore incornicia tutto con una fotografia fredda, un’esposizione bassa, l’esaltazione dei toni chiari, neutri. Si sofferma su quadri immobili, sulle lunghe pause, ritrae la noia di una festa in cui gli assassini sembrano uguali ai soci di un circolo di canottaggio qualunque, o ai gruppi di lettura del giovedì. È tutto tipico, sbagliato, ordinario, malevolo, consueto. Normale. Una passeggiata in riva al fiume, una pesca fortunata, e di sfondo i fumi delle camere a gas che anneriscono le nuvole. Perché le nuvole nel film ci sono sempre, ma non così dense da oscurare le giornate, sempre bagnate da un sole freddo e spietato. Queste giornate serene, la famiglia le divide tra un tuffo in piscina con i bambini e la pianificazione delle camere a gas perché siano più efficienti e veloci nel fare quel che devono con i carichi. I carichi umani.

Glazer si distacca dal racconto asciutto solo in due momenti, quando affida al negativo l’unico gesto di umanità operato da una giovane polacca, e quando come uno schiaffo inaspettato, apre uno squarcio sul presente mostrando operaie che lustrano il museo di Auschwitz per come è oggi, con le vetrinette che raccontano con quelle scarpe accumulate e valigie abbandonate, il frutto di quell’impegno che il comandante Höss profonde con così tanta passione per tutto il film. Il suo sguardo perso verso il corridoio buio, è l’occhio che il passato volge al futuro, o viceversa. Come diceva Nietzche: «E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te». Ma il filosofo aggiungeva anche dell'altro: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro».

 

 

 

Giornalista
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