A Palazzo di Strasburgo, la linea ufficiale del PPE era per la revoca dell’immunità, ma circa settanta eurodeputati hanno votato contro. Dietro la scelta, più che un sostegno personale, la sfiducia verso Orban e i suoi metodi. Decisive le delegazioni dell’Est e i dissidenti tedeschi
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Ilaria Salis (foto di Stefano Carofei - Ipa)
Un voto di un solo punto, 306 a 305. Ma sufficiente a ribaltare tutto. Ilaria Salis conserva l’immunità parlamentare grazie a una settantina di “franchi tiratori” interni al Partito popolare europeo. Ufficialmente il PPE aveva dato indicazione di votare per la revoca, in linea con la richiesta del Parlamento ungherese. Ma, protetti dal voto segreto, decine di eurodeputati hanno scelto di dire no, spiazzando i vertici del gruppo e mandando in tilt i calcoli della maggioranza.
Definirli “franchi tiratori” è forse riduttivo: molti avevano già espresso apertamente le proprie perplessità. Le motivazioni non erano politiche né ideologiche, ma di principio. Il nodo centrale riguardava la credibilità dello Stato di diritto in Ungheria e la preoccupazione, condivisa da molti parlamentari, di consegnare al premier Viktor Orban una vittoria da usare in chiave interna. In altre parole, nessuno voleva “difendere Salis”, ma nemmeno offrire a Budapest un precedente utile contro i suoi oppositori.
Le discussioni interne al gruppo popolare erano state accese fin dalla vigilia. Manfred Weber, il capogruppo tedesco del PPE, sapeva che il dissenso covava sotto la superficie ma non ha fatto nulla per forzare la disciplina di voto. «Ci sono sensibilità diverse, lasciamo libertà di coscienza», sarebbe stata la linea ufficiosa adottata per evitare uno scontro interno. E quella libertà è bastata per cambiare il risultato.
Secondo le ricostruzioni circolate a Bruxelles, i voti decisivi sarebbero arrivati da più fronti. La delegazione tedesca – la più numerosa – si sarebbe spaccata quasi a metà, con una quindicina di voti contrari alla revoca su 31. A sorprendere sono stati però i gruppi dell’Est Europa: 23 polacchi, 10 rumeni e 7 ungheresi avrebbero scelto di schierarsi contro Orban, nonostante appartengano formalmente alla stessa famiglia politica. Dietro la scelta, la crescente insofferenza di quei Paesi verso le posizioni filorusse del premier magiaro e il suo isolamento nei tavoli europei.
A questi si sarebbero aggiunti numerosi deputati dell’area mediterranea del PPE: 7 greci, 3 maltesi e 2 ciprioti, mentre gli spagnoli sarebbero rimasti compatti con la linea ufficiale. E poi ci sono gli italiani. Difficile dire con certezza quanti esponenti di Forza Italia abbiano scelto la via del dissenso, ma il sospetto è fondato. A fine settembre, infatti, l’europarlamentare forzista Massimiliano Salini aveva parlato apertamente di “libertà di coscienza”, segnale chiaro che all’interno della delegazione italiana non tutti condividevano la linea dura.
A pesare sulla decisione, anche un certo scetticismo sulla solidità del caso giudiziario ungherese. Ilaria Salis, oggi eurodeputata di Alleanza Verdi e Sinistra, era stata arrestata a Budapest nel febbraio 2023 con l’accusa di aggressione a due militanti di estrema destra. Dopo oltre un anno di carcere e un processo controverso, la sua candidatura e l’elezione a Strasburgo avevano sollevato il problema dell’immunità. Il governo di Orban ha subito chiesto la revoca, presentandola come una questione di giustizia e sovranità nazionale.
Ma per molti deputati europei, concedere quella revoca avrebbe significato legittimare un sistema giudiziario considerato da anni sotto osservazione per mancanza di indipendenza. «Il rischio era di aprire un varco pericoloso – spiega una fonte vicina al PPE –. Oggi si toglie l’immunità a un’eurodeputata italiana, domani potrebbe toccare a un ungherese oppositore del governo».
Così, la somma di assenze (98) e astensioni (17), insieme ai settanta voti contrari interni al PPE, ha prodotto l’esito più inatteso: Salis salva l’immunità, Budapest resta a mani vuote e la spaccatura nel centrodestra europeo è ormai evidente.
Il risultato, a Strasburgo, è stato accolto con sorpresa e imbarazzo. Da un lato, la soddisfazione dei gruppi progressisti e dei Verdi, che hanno rivendicato il voto come una vittoria dello Stato di diritto; dall’altro, il gelo nelle file popolari, dove molti temono che la vicenda lasci un segno politico pesante. Il capogruppo Weber, pur evitando toni polemici, ha ammesso che «ci sono stati voti liberi, come in democrazia deve essere».
Dietro la facciata diplomatica, però, resta una frattura. Alcune delegazioni dell’Est minacciano di fare fronte comune contro Orban su altri dossier, mentre nel PPE serpeggia l’idea che l’episodio abbia dimostrato la fine della compattezza storica del gruppo.
Ilaria Salis, dal canto suo, si è limitata a un ringraziamento sobrio: «È una decisione che tutela non solo me, ma la libertà di tutti i parlamentari». Un messaggio che, nel linguaggio della politica europea, vale più di qualsiasi discorso. Perché, nel voto segreto che ha salvato la sua immunità, l’Europa ha mostrato un volto diverso: meno allineato, più umano e – forse – più libero.