Nella notte tra il 6 e il 7 maggio, nei cieli del Kashmir conteso, è andata in scena una battaglia destinata a segnare una svolta nella geopolitica militare asiatica. I caccia pakistani J-10C, prodotti dalla cinese Chengdu Aircraft Industry e armati con missili PL-15, hanno abbattuto diversi jet indiani, tra cui almeno un Rafale francese. È stata la prima volta per tutto: primo scontro diretto tra caccia cinesi e avversari Nato, primo abbattimento per il Rafale, e prima vittoria per un velivolo di fabbricazione cinese contro un aereo dell’Alleanza Atlantica. Una dimostrazione muscolare che scuote gli equilibri dell’Asia-Pacifico e rilancia le ambizioni militari di Pechino sul piano globale.L’episodio raccontato da Domani apre a una lunga serie di considerazioni strategiche e militari. 

Una vittoria simbolica e tecnologica

Il Rafale è considerato uno dei caccia multiruolo più avanzati al mondo, superiore per potenza di fuoco e autonomia rispetto al J-10C. Eppure il jet francese è caduto sotto i colpi del missile cinese. Questo risultato ha scatenato entusiasmo nei media di Stato e nei social patriottici cinesi. Non solo perché ha sancito la maturità dell’industria militare nazionale, ma anche perché il J-10C rappresenta un modello completamente “made in China”, dai motori all’avionica. Un passaggio epocale per un’industria che per decenni ha copiato modelli russi.

Il boom militare cinese

A pochi giorni dal vertice Nato del 24-25 giugno, il segretario generale Mark Rutte ha lanciato un chiaro allarme: «La Cina sta rafforzando enormemente le sue capacità militari». Il Dragone possiede già la marina militare più grande del mondo e punta a schierare 435 navi da combattimento entro il 2030. Sul fronte nucleare, prevede di superare le 1.000 testate operative nello stesso anno. La televisione di Stato cinese ha recentemente svelato i dettagli del missile intercontinentale DF-5, con una gittata di 12.000 km e testate multiple da 3-4 megatoni. Un messaggio diretto a Washington: la nuova generazione di armamenti strategici è pronta.

La strategia globale di Pechino

L’invasione russa dell’Ucraina e le tensioni su Taiwan dimostrano quanto i teatri euro-atlantico e pacifico siano ormai interconnessi. Pechino respinge l’idea che la Nato debba espandersi nell’Indo-Pacifico, accusando l’Alleanza di cercare pretesti per contenere la sua ascesa. Ma la Cina sta agendo con determinazione per diventare una potenza militare a tutto campo. Xi Jinping ha fissato gli obiettivi: «Un esercito pronto a combattere, capace di vincere». Il budget militare approvato per il 2025 è pari a 249 miliardi di dollari, con un aumento superiore al 7% per il quarto anno consecutivo, una crescita che supera quella del PIL. Se è vero che Washington spende ancora tre volte tanto, è altrettanto vero che la Cina produce armamenti a costi molto più bassi.

La corsa ai nuovi super-jet

Mentre i J-10C sono considerati di generazione 4,5, l’industria cinese sta già puntando più in alto. Sono circolate le prime immagini del J-36, un caccia stealth di nuova generazione con un raggio d’azione triplo rispetto all’F-35 e una capacità di fuoco senza paragoni nel suo segmento. Un mezzo in grado di annientare interi sciami di droni. Anche questo velivolo è 100% cinese. La Cina è pronta a competere con Stati Uniti ed Europa anche nel mercato internazionale, dove finora è stata marginale (5,9% delle esportazioni globali tra il 2020 e il 2024, secondo SIPRI). Ma qualcosa sta cambiando.

L’export militare: dopo il Pakistan, tocca all’Egitto

Nel quinquennio appena trascorso, il 63% delle esportazioni belliche cinesi è stato assorbito dal Pakistan, alleato storico e pilastro militare del fronte anti-indiano. Ora, però, nuovi acquirenti si affacciano: Egitto e Indonesia stanno trattando per acquistare i J-10C, venduti a circa 50 milioni di dollari l’uno, metà del prezzo di un F-35. A trainare l’interesse ci sono anche altri modelli: l’FTC-2000G e l’L15, velivoli pensati sia per l’addestramento sia per il combattimento, dal costo contenuto e con un supporto tecnico completo fornito da Pechino. Dopo auto elettriche, telecomunicazioni e rinnovabili, anche gli armamenti sembrano pronti per la conquista globale firmata Cina.

L’Africa nel mirino di Pechino

Il Dragone non si limita a esportare armi. Sta investendo anche nella formazione militare. In Africa, sempre più paesi ricevono supporto a 360 gradi da Pechino: forniture belliche, addestramento, tecnologia. Il generale Michael Langley, a capo dell’Africom, ha lanciato l’allarme: «La Cina sta cercando di replicare il nostro programma IMET». E mentre l’amministrazione Trump considera la possibilità di accorpare Africom al comando europeo per tagliare i costi, Pechino riempie il vuoto. Lo scorso mese ha ospitato un centinaio di funzionari militari da 40 nazioni africane. E al Forum Cina-Africa del 2024, Xi Jinping ha annunciato l’addestramento di 6.000 ufficiali africani entro il 2027 e la concessione di aiuti militari per 139 milioni di dollari.

La sfida a Washington è lanciata

Washington ha provato a rispondere convocando a sua volta la Conferenza dei capi di Stato maggiore africani, ma la pressione cinese si fa sempre più forte. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha affidato a Langley il compito di «contrastare le ambizioni del Partito comunista cinese». Ma con meno fondi, meno presenza e meno appeal, per gli Stati Uniti sarà una missione tutt’altro che semplice. La sfida è lanciata. E si gioca, contemporaneamente, nei cieli del Kashmir, nei cantieri navali di Shanghai e nei centri di addestramento militare dell’Africa subsahariana.