Gli Emirati Arabi non vivono più solo di petrolio ma puntano su tecnologia, sostenibilità e diplomazia culturale. Per l’Italia una sfida e un’opportunità
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Da simboli del deserto a capitali dell’innovazione. Dubai e Abu Dhabi non sono più soltanto oasi di lusso e grattacieli, ma laboratori del futuro. Il Golfo Persico si sta trasformando in un nuovo centro di potere economico, culturale e tecnologico, capace di attrarre investimenti globali, talenti e multinazionali. Una metamorfosi che ridefinisce gli equilibri internazionali e apre interrogativi cruciali per l’Europa e l’Italia.
Dimentichiamo per un momento le immagini stereotipate. Gli Emirati Arabi Uniti non vivono più solo di petrolio. Il settore energetico rappresenta ancora una fetta importante del PIL, ma la vera rivoluzione è nella diversificazione. Dubai è ormai un hub globale per tecnologia, finanza, turismo e logistica. Abu Dhabi investe miliardi in sostenibilità, intelligenza artificiale, educazione e ricerca scientifica. Vision 2030, il piano strategico promosso in tutto il Golfo, spinge verso una modernizzazione senza precedenti.
La modernità qui è selettiva ma pragmatica: si combinano elementi della cultura araba con modelli occidentali di sviluppo urbano, tecnologico e sociale. Il risultato sono città che sembrano uscite dal futuro, ma profondamente connesse al mondo attuale: green economy, smart city, intelligenza artificiale, finanza islamica digitale.
Il nuovo mondo arabo non cerca più solo prestigio attraverso grattacieli o squadre di calcio. Il vero investimento è nella reputazione, nella diplomazia culturale, nella formazione delle élite globali. Le università americane e britanniche aprono campus nel Golfo. Start-up europee trovano qui un mercato dinamico e capitali disponibili. Festival culturali, mostre d’arte e cinema diventano strumenti di influenza.
Dubai e Abu Dhabi si propongono come mediatori internazionali tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud del mondo. E mentre l’instabilità segna molti paesi arabi tradizionali, gli Emirati offrono un’immagine di stabilità, efficienza e apertura (anche se selettiva) ai cambiamenti globali.
L’ascesa del mondo arabo “moderno” è al tempo stesso una sfida e un’opportunità per l’Europa. Da un lato, c’è il rischio di perdere attrattività: Dubai può offrire tasse più basse, infrastrutture più moderne e una burocrazia più snella. Molte aziende europee spostano qui i loro quartier generali per il Medio Oriente, e non è raro che giovani professionisti italiani e francesi scelgano di trasferirsi negli Emirati, attirati da stipendi più alti e qualità della vita.
Dall’altro lato, il rafforzamento dei legami tra Europa e Golfo può essere una leva di rilancio. L’Italia, in particolare, ha molto da offrire: know-how ingegneristico, design, tecnologia green, cultura, turismo, agroalimentare. Ma serve una strategia chiara: non si può improvvisare una politica estera o industriale davanti a una regione che corre a velocità doppia.
L’Italia ha storicamente mantenuto buoni rapporti con il mondo arabo, ma oggi è chiamata a un salto di qualità. I grandi fondi sovrani del Golfo cercano partner credibili in Europa per progetti industriali, energetici e tecnologici. Settori come l’idrogeno verde, la transizione ecologica, l’intelligenza artificiale e la sicurezza alimentare sono oggi al centro delle agende arabe — e potrebbero diventarlo anche di quella italiana.
Roma, Milano e Torino possono giocare un ruolo chiave se sapranno posizionarsi come “porte” tra l’Europa e il nuovo Medio Oriente. Ma serve coesione politica, investimenti mirati e un orizzonte strategico.
L’ascesa del Golfo ci dice che il futuro non sarà più scritto solo tra Washington, Bruxelles e Pechino. Il mondo diventa multicentrico, e il Mediterraneo torna ad essere uno snodo cruciale. Dubai e Abu Dhabi sono il volto di un mondo arabo che vuole contare, innovare, influenzare.
Per l’Europa e per l’Italia la sfida è chiara: non farsi travolgere dal cambiamento, ma diventarne protagonisti.