Secondo un recente sondaggio condotto dalla rivista Nature su oltre mille scienziati statunitensi, il 75% sta seriamente valutando l’ipotesi di trasferirsi in Europa o in Canada. La situazione al National Institutes of Health (NIH), uno dei maggiori enti pubblici per il finanziamento e lo svolgimento della ricerca biomedica, viene descritta come paralizzata. “Non possiamo assumere, né reclutare, né viaggiare o avere contatti esterni”, ha spiegato un ricercatore in forma anonima. Una condizione di stallo che sta mettendo in crisi il sistema.

Boom di candidature per l’estero

I numeri raccolti da Nature Careers, piattaforma globale di offerte di lavoro scientifiche, confermano il trend: tra gennaio e marzo 2025, le candidature di scienziati americani per posizioni all’estero sono aumentate del 32% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Anche le ricerche online da parte di utenti statunitensi in cerca di opportunità fuori dal Paese sono cresciute del 35%.

Cinzia Zuffada, già deputy chief scientist al Jet Propulsion Laboratory della Nasa, oggi attiva nei rapporti con l’agenzia spaziale americana, osserva: “C’è preoccupazione, ma parlare di fuga forse è prematuro. Servono certezze sui budget: senza programmazione non si può pianificare, né trattenere risorse umane”.

Giovani più inclini a partire

A pesare sulla scelta di emigrare è anche l’età anagrafica e professionale. I ricercatori affermati sono legati a un ecosistema di strutture, collaborazioni e risorse difficile da ricostruire altrove. Diversa è la situazione per chi è agli inizi della carriera: dottorandi, postdoc e giovani professionisti senza contratti stabili sono più flessibili. Per loro, cercare altrove è spesso una necessità.

Un recente articolo pubblicato da The Economist ha analizzato quali Paesi potrebbero trarre beneficio da questa potenziale emorragia intellettuale: l’Italia figura al quinto posto, superando Francia, Spagna, Norvegia e Svizzera.

L’Italia prova ad attrarre cervelli

Il Ministero dell’Università e della Ricerca ha lanciato un bando da 50 milioni di euro per attrarre ricercatori dall’estero. Una misura accolta positivamente da Zuffada, oggi presidente di Issnaf (la fondazione degli scienziati italiani in Nord America): “Richiamare talenti con esperienza è una strategia intelligente, ma resta molto da fare. L’Italia ha pochi laureati e ancora meno dottorati, che spesso emigrano per mancanza di opportunità adeguate”.

Le vere sfide italiane: burocrazia e competitività

Giovanni Medico, ricercatore torinese che lavora al Weill Cornell Medical College di New York, invita a guardare oltre i finanziamenti e a La Stampa spiega: “Il problema dei fondi è serio, ma la burocrazia italiana è il vero ostacolo. Rallenta processi e iniziative, rendendo le istituzioni meno competitive”. Anche il rapporto tra pubblico e privato è molto diverso rispetto agli Stati Uniti, dove le collaborazioni con le industrie farmaceutiche sono intense e produttive.

Cornell ha visto congelare un miliardo di finanziamenti a causa delle politiche dell’amministrazione Trump. “Il clima è teso. Ogni incontro inizia con la domanda: il tuo laboratorio è ancora operativo?”, racconta Medico. “Se questa situazione si prolunga, potrei considerare il ritorno in Italia, ma servono condizioni adeguate”.

Talenti in bilico tra efficienza e speranza

L’efficienza operativa è un altro nodo cruciale. Negli USA, acquistare un reagente per il laboratorio significa riceverlo il giorno dopo. In Italia, a volte, bisogna attendere una settimana o più. “Non basta stanziare fondi se poi non si interviene su tutta la catena operativa”, conclude Medico. “Serve una riforma strutturale”.

Paradossalmente, l’aumento della burocrazia in America – alimentato da figure come Trump e Musk – sta rendendo il sistema statunitense simile a quello italiano. La differenza è che, almeno per ora, l’infrastruttura americana resta più solida.