Tre milioni e mezzo di euro: tanto costano, almeno per l’Antitrust, le dichiarazioni etiche non mantenute. La Giorgio Armani Spa, il colosso della moda fondato dal celebre stilista cinquant’anni fa, è stata multata per pratica commerciale ingannevole, una sanzione che riapre vecchie ferite nella filiera della moda italiana e soprattutto nella storia recente della maison.

Il caso nasce dal procedimento avviato a luglio 2024 dopo l’episodio di caporalato che aveva coinvolto la Giorgio Armani Operations, la società del gruppo che produce borse e accessori in pelle. La Procura di Milano aveva contestato l’omissione di controllo sulle condizioni dei lavoratori nelle aziende subfornitrici e aveva chiesto l’amministrazione giudiziaria per la società, misura poi revocata già a febbraio 2025 grazie, come recita l’ordinanza, al “virtuoso percorso compiuto dalla società nel solco delle prescrizioni impartite dal Tribunale”.

Ora, però, arriva la stangata dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Secondo l’Antitrust, Armani e la sua controllata avrebbero diffuso dichiarazioni “non veritiere” sulle politiche di responsabilità sociale e sulla tutela dei lavoratori. Documenti come il Codice Etico e i contenuti pubblicati sul sito “Armani Values” sarebbero stati presentati come garanzia di eticità della filiera, ma – secondo l’Autorità – non riflettevano la realtà dei laboratori che materialmente producevano parte della pelletteria.

Gli ispettori di Polizia Giudiziaria, durante un sopralluogo, hanno trovato condizioni di lavoro irregolari in alcune aziende subfornitrici. In uno dei laboratori, ha riferito l’Antitrust, era presente un dipendente di Giorgio Armani Operations incaricato del controllo qualità, che ha dichiarato di «recarsi mensilmente presso quel laboratorio da circa sei mesi». Per l’Autorità, ciò dimostra che la società era consapevole delle condizioni dei lavoratori e non poteva ignorare quanto accadeva nella sua filiera.

Dura la reazione dell’azienda: «Giorgio Armani S.p.A. accoglie con amarezza e stupore la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato», si legge in una nota. Il gruppo annuncia ricorso al Tar, ribadendo di aver sempre operato «con la massima correttezza e trasparenza nei confronti dei consumatori, del mercato e degli stakeholder, così come dimostrato dalla storia del Gruppo».

In un documento inviato a Il Sole 24 Ore, la maison sottolinea che la decisione dell’Antitrust «si sarebbe basata sugli elementi preliminari che avevano portato alla richiesta di amministrazione giudiziaria», senza tenere conto «dei sistemi di controllo e vigilanza già in essere e dei miglioramenti apportati» durante la gestione commissariale. Armani ricorda inoltre che gli episodi contestati «riguardavano due soli fornitori, pari allo 0,7% degli acquisti complessivi di lavorazioni o prodotti finiti».

Resta il fatto che l’immagine del brand subisce un duro colpo. La vicenda di caporalato ha acceso i riflettori su un aspetto spesso taciuto dell’industria del lusso: dietro le vetrine scintillanti e le campagne patinate, esistono filiere fragili, dove la corsa al contenimento dei costi può sfociare nello sfruttamento. L’amministrazione giudiziaria aveva già imposto un cambio di passo, con controlli più serrati e fornitori selezionati. Ora la multa dell’Antitrust rischia di riaprire la ferita, proprio nell’anno in cui il marchio celebra il mezzo secolo di attività.

Armani rivendica di essere diventata, dopo il commissariamento, «un modello di riferimento per l’intero settore», grazie a nuove procedure di tracciabilità e audit interni. Ma l’Autorità resta ferma sulle sue conclusioni: le dichiarazioni al pubblico non erano “chiare, accurate e inequivocabili” al momento della diffusione.

La battaglia legale si sposterà quindi davanti al Tar, ma intanto l’episodio entra di diritto tra le pagine nere della moda italiana. Perché nel lusso globale, dove l’immagine è tutto, anche solo l’ombra dello sfruttamento rischia di costare molto più di una multa milionaria.