Il segretario al Tesoro scarica la responsabilità sul passato, ma la crisi fiscale americana è figlia di anni di spese fuori controllo e di una politica incapace di riformare il sistema
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Gli Stati Uniti non sono più un paradiso del credito. Moody’s ha ufficialmente tolto all’America la sua ultima “tripla A”, declassando il rating del debito sovrano a Aa1, il secondo livello più alto. Non accadeva da decenni. Le altre due agenzie principali, Standard & Poor’s e Fitch, avevano già retrocesso Washington nel 2011 e nel 2023. Ora anche l’ultima roccaforte è caduta. E con essa, forse, un pezzo del mito americano.
Il segretario al Tesoro Scott Bessent, volto fresco dell’amministrazione Trump, ha reagito senza mezze misure. «Non siamo arrivati a questo punto negli ultimi cento giorni. È tutta colpa di Biden e della sua spesa pubblica fuori controllo», ha dichiarato. Una linea difensiva netta, ma che sembra più dettata dalla necessità di mettere le mani avanti che da una reale analisi dei fatti.
Perché la realtà è ben più complessa. Il downgrade di Moody’s è frutto di una diagnosi profonda e impietosa: il debito federale ha superato i 36 trilioni di dollari, e i deficit annuali viaggiano stabilmente sopra il 6% del Pil anche in assenza di crisi economiche o guerre. Un’anomalia che si è cronicizzata nel tempo. Le cause? Politiche fiscali sbilanciate, tagli alle tasse mai compensati da tagli alla spesa, e una macchina statale che continua a spendere più di quanto incassi, sotto democratici e repubblicani.
E c’è un altro elemento che ha fatto scattare l’allarme: la paralisi istituzionale. Moody’s ha evidenziato come l’assenza di un dialogo costruttivo tra Congresso e Casa Bianca stia minando la credibilità stessa del governo. La sequenza infinita di minacce di shutdown, scontri sul tetto del debito, veti incrociati e stalli parlamentari ha reso chiaro che non c’è una strategia nazionale sostenibile. Solo compromessi di corto respiro e campagne elettorali permanenti.
Lo stesso Trump, nel suo ritorno alla guida del Paese, ha rilanciato con forza i suoi cavalli di battaglia: tagli fiscali su larga scala, difesa della sovranità monetaria, e attacchi frontali alla Federal Reserve. Una linea che ha spaventato anche gli ambienti finanziari. Perché se il debito cresce e il potere di intervento della Fed viene messo in discussione, gli Stati Uniti rischiano di perdere l’ultimo pilastro della loro egemonia economica: la fiducia.
Per ora, Bessent prova a tranquillizzare i mercati: «La nostra crescita supererà l’aumento del debito. Abbiamo un piano per ridurre la spesa». Ma nessun dettaglio è stato fornito. E nel frattempo, il Congresso ha bloccato proprio il disegno di legge fiscale dell’amministrazione, che mirava a estendere i tagli del 2017 per altri dieci anni. Anche all’interno del partito repubblicano, crescono i malumori. Cinque deputati hanno votato contro, preoccupati per l’effetto esplosivo sul deficit.
Il punto più critico resta proprio questo: nessuno ha più una vera idea su come riportare in equilibrio i conti pubblici. I tagli alla spesa sono impopolari, aumentare le tasse è un tabù, e le promesse di crescita infinita suonano sempre più come slogan. Il declassamento potrebbe essere solo il primo segnale. I tassi sui titoli del Tesoro sono già saliti, aumentando il costo del debito. Gli investitori iniziano a chiedersi quanto a lungo potranno ancora fidarsi del dollaro come valuta di riserva mondiale.
La Casa Bianca minimizza, il Tesoro difende, e intanto la macchina americana scricchiola. Gli Stati Uniti non sono sull’orlo del default, ma la traiettoria non è rassicurante. Moody’s ha lanciato un messaggio chiaro: senza un piano credibile, il “sogno americano” rischia di trasformarsi in una gigantesca cambiale da pagare. E nessuno, da Washington in giù, sembra voler essere il primo a firmarla.