In quelle drammatiche settimane il Pontefice mobilitò tutte le risorse disponibili per salvare l’allievo prediletto. Neanche l’ultimo straziante appello pubblico cambiò l’epilogo della storia
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Aldo Moro, prigioniero delle Br, in una foto d'archivio
La mattina del 16 marzo 1978, quando Paolo VI apprende del rapimento di Aldo Moro, il suo primo pensiero va a «quest’uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico». Si chiude nel suo studio privato, le mani tremanti strette al rosario. Non è solo il rapimento di un leader politico – è il suo Aldo, l’allievo prediletto che aveva guidato spiritualmente sin dai tempi della Fuci, «a cui sono unito da vincoli di profonda amicizia». I suoi collaboratori più stretti lo vedono «invecchiare di colpo» quel giorno, come se il peso di questa croce lo schiacciasse fisicamente.
Il Papa non perde un istante. Nel pomeriggio convoca il suo fidato segretario, don Pasquale Macchi, e il cardinale Jean-Marie Villot. «Dobbiamo fare tutto il possibile», dice loro con voce ferma. «Tutto». In quella parola c’è già la determinazione di percorrere anche i «segreti sentieri» necessari per raggiungere «gli uomini più crudeli», come più tardi confesserà il suo collaboratore padre Cremona. Da quel momento, Paolo VI inizierà quello che lui stesso definirà il suo personale Getsemani.
Le notti del Papa
Le settimane successive sono un calvario per Paolo VI. Di notte, quando il Palazzo Apostolico si fa silenzioso, il Papa veglia nel suo studio, tormentato dal pensiero dell’amico prigioniero. I collaboratori lo sentono camminare, pregare, talvolta piangere. Sul suo tavolo si accumulano le lettere di Moro dalla «prigione del popolo». In una di queste, Moro lo supplica ricordando «la paterna benevolenza che la Santità Vostra mi ha tante volte dimostrato», implorando il suo intervento per «favorire nel modo più opportuno almeno l’avvio di quel processo di scambio di prigionieri politici». Ogni parola è un pugnale nel cuore del Pontefice. Ogni mattina, prima dell’alba, Paolo VI chiama personalmente Eleonora Moro. Sono conversazioni brevi, cariche di dolore e preghiera. «Ho solo capito in questi giorni», scrive Moro alla moglie in una lettera poi dispersa, «cosa vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo». Il Papa condivide questa via crucis, e la sua voce tradisce una sofferenza che va ben oltre il ruolo istituzionale.
La via segreta
Mentre pubblicamente mantiene un profilo di dignitoso dolore, in privato Paolo VI mobilita ogni risorsa possibile. Come confiderà più tardi il suo segretario Macchi, il Pontefice incarica don Cesare Curioni, ispettore generale dei cappellani carcerari e suo conterraneo, di stabilire contatti «sia all’interno del carcere sia all’esterno». È una missione delicatissima, che richiede di muoversi attraverso quelli che padre Cremona definirà «anelli di congiunzione non compromessi con la malavita, intermediari che sono come buoni samaritani e che per far del bene passano attraverso i medesimi sentieri oscuri dei ladroni». A Castel Gandolfo, nella massima segretezza, vengono accumulate banconote per dieci miliardi di lire. Come testimonierà Fabio Fabbri, assistente di Curioni, il denaro viene preparato per un possibile riscatto. «Se fosse questione di denaro», annoterà più tardi Andreotti nei suoi diari, «sia noi che il Vaticano saremmo all’altezza». Paolo VI è disposto a tutto: come ai tempi di Pio XII, quando intervenne per salvare il giovane professor Vassalli durante l’occupazione nazista, il Papa non vuole lasciare nulla di intentato.
L’appello pubblico
Il 21 aprile 1978, dopo notti di preghiera e tormento, Paolo VI compie un gesto senza precedenti nella storia della Chiesa. Si rivolge pubblicamente ai rapitori: «Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi», inizia il suo appello, «per questo vi scrivo pubblicamente... Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo».
Poi, in un gesto di umiltà straordinaria per un Pontefice, si inginocchia simbolicamente davanti ai terroristi: «Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi... e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni». Nella bozza originale, il Papa aveva scritto «senza alcuna imbarazzante condizione», ma la frase viene modificata per ragioni diplomatiche.
Gli ultimi giorni
L’8 maggio, tra i collaboratori del Papa cresce un cauto ottimismo. Come ricorderà padre Cremona, si attende una telefonata che annunci l’accettazione della proposta vaticana: «i patti erano che qualcuno avrebbe dovuto visitare immediatamente Moro nella sua prigione e portargli il conforto del papa».Ma la mattina del 9 maggio, la speranza si infrange. Il corpo di AldoMoro viene ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani. Per Paolo VI è un colpo devastante. Nelle sue ultime lettere, Moro aveva scritto con amarezza che «il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo», un giudizio dettato dalla disperazione della prigionia che tormenterà ulteriormente il Pontefice.
L’ultima preghiera
Il 13 maggio 1978, Paolo VI celebra i funerali pubblici a San Giovanni in Laterano. La famiglia Moro non è presente, rispettando la volontà dello statista che aveva chiesto «che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito». In quella occasione, il Papa pronuncia una delle preghiere più strazianti della storia della Chiesa moderna: «Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all'ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il ‘De profundis’, il grido, il pianto dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale».
Il fallimento nel salvare Moro segnerà profondamente gli ultimi mesi di vita di Paolo VI, che si spegnerà il 6 agosto dello stesso anno. Come osserverà lo scrittore Cesare Garboli, quella cerimonia mostrava «un papa vinto, un papa folgorato che balbettava oppresso dai paramenti le ultime e confuse battute della propria sconfitta». Era la fine di un’epoca, non solo per la Chiesa e l’Italia, ma per quel particolare rapporto tra fede e politica che aveva caratterizzato il dopoguerra italiano.
Eleonora Moro, nella messa del 16 maggio, pronuncerà parole che forse meglio di altre esprimono il dramma vissuto anche dal Pontefice: «Per i mandanti, gli esecutori e i fiancheggiatori di questo orribile delitto; per quelli che per gelosia, per viltà, per paura, per stupidità hanno ratificato la condanna a morte di un innocente... perché il senso di disperazione e di rabbia che ora proviamo si tramuti in lacrime di perdono, preghiamo».