Se oggi la Chiesa parla di giustizia sociale, se i papi possono rivolgersi al mondo senza passare per troni e scettri, se l’intelligenza è tornata a far parte della fede, è anche merito di un uomo mingherlino, ironico, lucido fino all’ultimo respiro: Leone XIII. Il suo nome di battesimo era Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci, ed era nato il 2 marzo 1810 a Carpineto Romano, in una famiglia nobile ma non ricca, circondato dai monti e da una spiritualità austera. Fu un bambino curioso, che leggeva tutto e si interrogava su tutto. Il latino gli veniva naturale come l’italiano, e la filosofia lo affascinava più delle cariche ecclesiastiche.

Salì al soglio pontificio nel 1878, succedendo a Pio IX, proprio mentre l’Italia unita toglieva alla Chiesa l’ultimo residuo di potere temporale. Ma Leone XIII non si perse in nostalgie. Capì prima di molti che il vero futuro del papato non era politico, ma spirituale e culturale. Così, mentre il Vaticano diventava uno Stato prigioniero, lui ne faceva il centro di una rinascita intellettuale.

Scrisse ben 86 encicliche. Alcune di queste sono oggi letti da storici e teologi come testi fondamentali del pensiero contemporaneo. Ma fu la Rerum Novarum, pubblicata nel 1891, a segnare una svolta epocale. Per la prima volta un Papa parlava dei diritti dei lavoratori, denunciava la miseria generata dal capitalismo selvaggio, e affermava il principio che ogni essere umano ha diritto a un lavoro dignitoso e a un salario giusto. Era l’alba della Dottrina Sociale della Chiesa. E non era una mossa strategica, ma una profonda convinzione.

La modernità, per Leone XIII, non era un nemico da combattere ma una sfida da comprendere. Per questo rilanciò lo studio della filosofia tomista, con l’enciclica Aeterni Patris, e sostenne che la fede non dovesse temere la ragione, ma camminare al suo fianco. «Non è mai la verità a temere la verità», diceva con un sorriso.

E sorrideva spesso, Leone XIII. Raccontano che un giorno, mentre passeggiava nei Giardini Vaticani, una gazzella – uno degli animali esotici che riceveva spesso in dono – gli corse incontro, facendolo quasi cadere. I presenti si spaventarono. Ma lui, con la calma di chi ha visto ben altro, rispose: «Dove si è mai visto che un Leone abbia paura di una gazzella?». L’arguzia era una sua cifra, anche quando affrontava temi ben più gravi.

Come quel giorno, in una stanza del Vaticano, in cui – secondo quanto raccontano alcuni testimoni – sarebbe rimasto immobile e pallido dopo una messa. Disse di aver avuto una visione: il demonio stava per scatenarsi contro la Chiesa come mai prima. Da quel giorno, volle che a fine messa si recitasse una preghiera speciale, scritta da lui stesso: l’invocazione a San Michele Arcangelo, contro le potenze del male. Fu recitata per decenni, poi dimenticata dopo il Concilio Vaticano II. Ma ancora oggi, in molte parrocchie e in cuori inquieti, risuona quella supplica: «San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia...».

Fu anche il primo Papa ad apparire in un filmato: pochi secondi in cui, con il corpo segnato dall’età ma lo sguardo ancora sveglio, impartiva una benedizione. Leone XIII morì nel 1903, a 93 anni, quando l’età media si fermava molto prima. La sua tomba si trova a Santa Maria Maggiore, non in San Pietro. Un segno forse inconsapevole della sua distanza dal potere.

Ma la sua eredità è ovunque: nei testi che leggiamo, nei diritti che rivendichiamo, in una Chiesa che ancora oggi – con fatica – tenta di essere anche voce dei poveri, e non solo eco dei potenti. Leone XIII non fu un rivoluzionario. Fu un uomo del futuro. E il nuovo papa, per scegliere il nome, si ricorda di lui.