La sentenza

Maxiprocesso alla mafia dei Nebrodi: condanne per sei secoli di carcere ai clan messinesi

Alla sbarra 101 imputati, dei quali solo 10 sono stati assolti. Il procedimento nasce da un'inchiesta della Dda di Messina: le cosche si accaparravano terreni con la violenza per poter accedere ai contributi Ue

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di Redazione
1 novembre 2022
09:02
La lettura della sentenza - foto Ansa
La lettura della sentenza - foto Ansa

Novantuno persone condannate, per un totale di sei secoli di carcere. Dieci le assoluzioni. Si è concluso così, nella tarda serata di ieri, il processo alla mafia dei Nebrodi celebrato davanti al tribunale di Patti, in provincia di Messina.

Pene durissime, dopo sette giorni di camera di consiglio, per un dibattimento con 101 imputati, celebrato in tempi record e che ha visto impegnati quattro pm della Dda di Messina: l'aggiunto Vito Di Giorgio, i magistrati Fabrizio Monaco, Antonio Carchietti e Alessandro Lo Gerfo.


Il processo nasce dall'operazione denominata Nebrodi che, oltre a ricostruire l'organigramma dei clan messinesi, ha scoperto una truffa milionaria, commessa dalle cosche, ai danni dell'Ue.

Gli imputati erano accusati a vario titolo di associazione mafiosa, truffa all'Ue, falso, estorsione, trasferimento fraudolento di valori. A istruire l'atto d'accusa alle "famiglie" mafiose dei Nebrodi dei Batanesi e dei Bontempo Scavo è stata la Dda di Messina che in venti mesi ha ricostruito davanti al tribunale di Patti gli organigrammi dei clan svelando complicità di prestanomi e insospettabili professionisti. La "mafia dei pascoli" non c'è più, hanno sostenuto i pm. Al suo posto c'è una organizzazione imprenditoriale al passo coi tempi e capace di sfruttare le potenzialità offerte dall'Unione europea all'agricoltura.

Prevalentemente su base familiare, in rapporti con Cosa nostra palermitana e catanese, la mafia dei Nebrodi ha continuato a usare vecchi metodi come la minaccia e la violenza, ma i taglieggiamenti spesso erano finalizzati all'accaparramento di terreni, la cui disponibilità è presupposto per accedere ai contributi comunitari. «Ssettore, questo, - scrisse il gip che firmò oltre 90 misure cautelari e il sequestro di 151 imprese - che costituiva il principale, moderno, ambito criminale di operatività delle famiglie mafiose». Gli inquirenti hanno anche accertato che il denaro illecito transitava spesso su conti esteri per, poi, «rientrare in Italia, attraverso complesse e vorticose movimentazioni economiche, finalizzate a farne perdere le tracce».

I clan grazie all'aiuto di professionisti puntavano all'accaparramento di utili, infiltrandosi in settori strategici dell'economia legale e - spiegò il gip - «depredandolo di ingentissime risorse».

Sotto processo oggi c'erano i i capi dei clan dei Batanesi e dei Bontempo Scavo. A fiutare l'affare milionario sono stati loro che, anche grazie all'aiuto di un notaio e di funzionari dei Centri Commerciali Agricoli (CCA) che istruiscono le pratiche per l'accesso ai contributi europei, hanno incassato fiumi di denaro sbancando le casse dell'Agea. Parti civili nel processo l'assessorato regionale Territorio ambiente, le associazioni Addiopizzo e SOS imprese, il Parco dei Nebrodi, il centro studio Pio Lo Torre, l'Agea, il Comune di Tortorici.

Le indagini iniziate su input inizialmente anche dall'ex procuratore capo di Messina Maurizio De Lucia, ora procuratore a Palermo. In aula anche molti degli avvocati dei 101 imputati che invece erano collegati in videoconferenza. In aula anche Giuseppe Antoci, presidente della Fondazione Caponnetto ed ex presidente del Parco dei Nebrodi che ha denunciato il rischio che le mani dei clan arrivassero ai fondi europei.  

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