Il Dna riscrive la scena del primo delitto: il bambino risparmiato nel 1968 è figlio di Giovanni Vinci, fratello dei sospettati storici. Nessuno l’aveva mai indagato. Ma ora ogni certezza vacilla
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La scena di uno dei delitti del mostro di Firenze
Il Mostro di Firenze è come certi incubi: credi di averli superati, ma basta un sussurro per risvegliarli. Una voce, una traccia, un dato. O, in questo caso, una prova scientifica capace di ribaltare la storia. Succede ora, a distanza di 56 anni dal primo delitto: Signa, 1968. Una donna e il suo amante vengono uccisi in auto con una calibro 22. Un bambino, Natalino Mele, 6 anni, si salva. E da lì parte l’incubo.
Finora sapevamo – o meglio, credevamo di sapere – che quel bambino era figlio di Stefano Mele, il manovale rozzo, geloso e un po’ confuso, marito della vittima, Barbara Locci, e che proprio lui fosse il killer. Condannato in via definitiva, prima come assassino e poi per calunnia, con la sua figura ambigua e sottomessa è diventato il capro espiatorio perfetto. Ma adesso la verità biologica smentisce quella giudiziaria.
Il Dna ha detto altro: Natalino non è figlio di Mele. Lo è di Giovanni Vinci, fratello maggiore di Francesco e Salvatore, nomi pesanti, centrali nell’inchiesta sul Mostro, sospettati, arrestati, rilasciati, usati e scartati come pedine. Ma Giovanni? Nessuno l’ha mai toccato. E invece era lì, dietro le quinte della tragedia, anche lui amante della Locci. Anche lui con un possibile movente. Anche lui – ora lo sappiamo – padre del bambino.
La scoperta, pubblicata da La Nazione e confermata dagli ambienti della Procura, arriva come una bomba in un’indagine storicamente fragile, più costruita su suggestioni e piste evaporate che su prove concrete. Il genetista Ugo Ricci, già noto per il caso Garlasco, ha messo nero su bianco il risultato: Natalino Mele è figlio di Giovanni Vinci.
E adesso che si fa?
Perché questa non è una curiosità genetica, è un terremoto nella dinamica di quel delitto. In quell’auto, nella notte del 21 agosto 1968, Barbara Locci e Antonio Lo Bianco vengono crivellati da colpi di calibro 22. Il bambino, invece, viene risparmiato, lasciato libero di uscire, camminare al buio, per due chilometri, su una strada sterrata, fino a un casolare. Con i calzini puliti, i vestiti in ordine. E nessuna memoria dell’accaduto. Aveva sei anni e mezzo. Aveva appena perso sua madre. E non ricordava nulla.
È uno dei misteri mai risolti del caso. Perché non venne ucciso? Se il killer era lo stesso, spietato, metodico, feroce, che anni dopo avrebbe fatto a pezzi coppiette nelle campagne toscane, perché lasciò andare proprio il figlio della vittima? Se Mele era il colpevole, che motivo avrebbe avuto per lasciarlo in vita? Se invece era qualcun altro – qualcuno che sapeva chi fosse quel bambino – allora tutto cambia.
Natalino oggi ha più di 60 anni. Ha ricevuto la notifica della Procura pochi giorni fa. Ha detto: «Non so chi sia quest’uomo. Non l’ho mai conosciuto». E questo rende la storia ancora più oscura.
Perché Giovanni Vinci non è mai stato indagato? Perché, mentre i suoi fratelli venivano torchiati, lui restava ai margini? Era più furbo? Meno visibile? O più protetto?
Quel primo delitto – l’unico, tecnicamente, senza mutilazioni – è sempre stato trattato come un caso a parte. Ma adesso, con questa scoperta, torna a essere il possibile punto d’origine dell’orrore. E Giovanni Vinci, da comparsa silenziosa, assume un ruolo nuovo. Perché il movente passionale, la gelosia, la vendetta, la follia, sono tutte ipotesi che si incastrano perfettamente con questo nuovo scenario.
E non è tutto. L’arma del delitto, una Beretta calibro 22 con proiettili Winchester serie H, non fu mai ritrovata. Ma ricomparve. Anni dopo. Sempre lei. Sempre uguale. Sempre letale. In altri luoghi, con altre vittime. Ma con la stessa firma.
Nel 1974, a Borgo San Lorenzo, altri due giovani morirono allo stesso modo. E poi altri ancora, fino al 1985. Otto duplici omicidi. Una scia di sangue che ha attraversato la storia criminale italiana. E che forse comincia proprio lì, in quella notte di fine estate a Signa, con un bambino vivo, due adulti morti, e un assassino che sapeva esattamente cosa stava facendo.
Oggi, tutto quello che credevamo di sapere non basta più. La pista sarda, mai davvero sepolta, torna viva e pulsante. Con un nuovo nome, con un nuovo ruolo. Con la sensazione disturbante che, ancora una volta, qualcuno abbia guardato altrove. Che la verità sia sempre stata lì, dove non si voleva vedere.
E allora si torna da capo. Di nuovo. Nel buio. Dove tutto è cominciato. E dove, forse, non è ancora finita.