La Brexit doveva essere l’inizio di una nuova epoca per il Regno Unito. Libero dalle “catene di Bruxelles”, Londra avrebbe dovuto rilanciare la propria economia, riprendere il controllo dell’immigrazione e rinsaldare la propria sovranità. A distanza di otto anni dal referendum del 2016, e cinque dall’uscita formale dall’Unione Europea, la realtà si presenta ben diversa dalle promesse.

Oggi, con un nuovo governo al potere — e in attesa delle elezioni future che potrebbero ridisegnare ancora il quadro — il Regno Unito sta lentamente ma concretamente riaprendo i canali con Bruxelles. Non si parla di un ritorno nell’Unione, ma l’aria è cambiata: si lavora su intese economiche, su una cooperazione più stretta in campo scientifico, e su nuove forme di partnership. È un ripensamento? Un ritorno mascherato? Un’operazione pragmatica? Di sicuro è un segnale. E riguarda anche l’Europa, alle prese con la ridefinizione delle proprie alleanze dopo la frattura con gli Stati Uniti di Trump.

Secondo un sondaggio YouGov di aprile 2025, il 61% dei britannici ritiene che la Brexit sia stata un errore. Solo il 24% continua a sostenerla. Una quota significativa (15%) resta indecisa, ma il dato centrale è questo: per la maggioranza degli elettori britannici oggi la Brexit è stata un fallimento. E non è difficile capirne il motivo.


Dal 2016 a oggi
 

Il PIL britannico è cresciuto mediamente del 1,2% annuo, contro una media UE del 1,8% (fonte: IMF, dati aggiornati al 2024). L’inflazione è rimasta più alta rispetto alla zona euro, toccando un picco del 11% nel 2022 e assestandosi sul 4% nel 2024, mentre l’eurozona è scesa al 2,6%.
Il commercio estero con l’UE è crollato del 15% rispetto ai livelli pre-Brexit, con un calo drastico soprattutto nell’export alimentare e nei prodotti industriali. Il sistema sanitario nazionale (NHS) ha risentito dell’abbandono di migliaia di lavoratori europei, in un contesto già critico per le carenze strutturali. La City di Londra, un tempo cuore della finanza europea, ha visto spostare oltre 1.200 miliardi di euro in asset e capitali verso città come Parigi, Francoforte e Dublino.

Il governo entrato in carica nel 2024 — guidato dai laburisti di Keir Starmer, ma anche con parte dei Tory in riposizionamento moderato — ha compiuto piccoli ma significativi passi verso Bruxelles. Rientro nel programma Horizon Europe: la scienza e la ricerca sono stati tra i primi settori a riannodare i fili. A partire dal gennaio 2025, il Regno Unito partecipa ufficialmente al principale programma di ricerca europeo, con un contributo annuale di 2,6 miliardi di euro.

Dialogo commerciale: sono in discussione semplificazioni doganali, la riduzione delle barriere non tariffarie e un possibile accordo sulla mobilità giovanile e professionale, per permettere a giovani lavoratori e studenti di spostarsi più facilmente tra UK e UE. Sicurezza e difesa: in un’Europa che si sente minacciata da est, Londra partecipa con crescente frequenza a esercitazioni congiunte e iniziative comuni, soprattutto in ambito Nato ma con interlocuzioni anche nei meccanismi europei di difesa integrata.

Parlare di ritorno nell’UE è prematuro. Politicamente, nessuno in Gran Bretagna — nemmeno Starmer — si spinge fin lì. Ma il modello “Svizzera 2.0” (forte integrazione economica senza adesione politica) o “Norvegia rafforzata” (adesione allo Spazio economico europeo) comincia a entrare nel dibattito. Secondo un report del think tank UK in a Changing Europe (aprile 2025), il 43% dei britannici sarebbe favorevole a una “nuova forma di associazione speciale” con l’UE. Una formula flessibile, ma stabile. Che consenta al Regno Unito di riaccedere a pieno titolo al mercato unico in alcuni settori, pur mantenendo la propria autonomia legislativa.


Se Londra si muove, Bruxelles osserva

Alcuni Stati membri — in particolare Francia e Germania — vedono positivamente un riavvicinamento del Regno Unito, soprattutto in chiave geopolitica, alla luce delle tensioni con Russia e Cina e del raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti di Donald Trump. Ma altri paesi, tra cui Polonia e Ungheria, restano diffidenti, temendo un precedente pericoloso.

Per l’Europa, dunque, il dilemma è strategico: meglio rafforzare l’unità interna o costruire un’Europa a cerchi concentrici, dove attori esterni come UK, Norvegia, Svizzera e persino Ucraina abbiano un ruolo rilevante ma differenziato? Molto dipenderà dall’evoluzione del quadro politico interno britannico (le elezioni generali sono attese entro il 2029, ma già nel 2026 ci saranno elezioni locali cruciali); dalla capacità di Bruxelles di definire una politica estera autonoma dopo la “rottura emotiva” con Washington; dall’impatto delle sfide globali: guerra in Ucraina, transizione verde, intelligenza artificiale, crisi demografica.

Una cosa è certa: la Brexit non è una pagina chiusa. È stata una separazione traumatica, ma non definitiva. Il nuovo capitolo, ancora tutto da scrivere, non parlerà di ritorni impossibili, ma di ricostruzioni possibili. La Brexit ha prodotto costi economici e sociali importanti per il Regno Unito, e oggi, con un governo più pragmatico a Londra, si intravede una fase di avvicinamento all’UE. Non si tratta (ancora) di una marcia indietro, ma di una volontà concreta di collaborare. L’Europa, a sua volta, valuta se e come integrare Londra in un nuovo assetto geopolitico. In un mondo instabile, la strategia del dialogo potrebbe essere la scelta più sensata.