Il religioso italiano scomparve nel 2013 mentre cercava di liberare ostaggi dallo Stato Islamico. Il gesuita aveva fatto del dialogo tra fedi e culture la missione della sua vita. Ora, la notizia del ritrovamento di un corpo in Siria apre nuove domande e vecchie ferite
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Una delle manifestazioni per chiede la liberazione di padre Dall'Oglio
Padre Paolo Dall’Oglio è scomparso da oltre un decennio, un vuoto che ancora oggi pesa come un macigno nella memoria collettiva. Il gesuita romano era andato in Siria per cercare di liberare alcuni ostaggi detenuti dallo Stato Islamico. Era il 29 luglio 2013 quando, a Raqqa, si persero le sue tracce. Oggi, a distanza di anni, arriva una svolta tanto inattesa quanto dolorosa: in una fossa comune vicino a Raqqa sarebbe stato rinvenuto un corpo in abiti religiosi, compatibile con la sua figura.
A confermare la notizia è stato il nunzio apostolico a Damasco, il cardinale Mario Zenari. «Sono stato informato ieri sera», ha dichiarato, «ma le indicazioni sul luogo del ritrovamento e sull’identità di Padre Paolo non sono ancora precise. Stiamo cercando conferme attraverso i gesuiti presenti sul territorio». Una cautela comprensibile: la Siria resta un terreno minato, sia in senso letterale sia per la difficoltà di ottenere informazioni attendibili.
Il vescovo di Qamishlie, che ha riportato la notizia, ha raccontato come la voce del possibile ritrovamento stia circolando ormai da giorni. Ma l’identificazione formale richiederà tempo e pazienza. È un momento di speranza e dolore insieme: la speranza di dare finalmente una risposta, la certezza che forse non è mai tornato davvero a casa.
Padre Paolo era molto più di un sacerdote per la Siria. Arrivato negli anni ’80, aveva scelto di vivere a Mar Musa al Habashi, un antico monastero scavato nella roccia, simbolo di un cristianesimo di frontiera e di accoglienza. Il suo sogno era creare un ponte di dialogo tra cristiani e musulmani, un laboratorio di pace in un Paese sempre più lacerato.
Quando la Siria fu travolta dalla rivolta contro il regime di Bashar al-Assad, Padre Paolo non esitò a schierarsi dalla parte dei manifestanti. Una scelta coraggiosa che gli costò l’espulsione nel giugno 2012. Ma la lontananza non bastò a fermarlo. Riparato in Iraq, nella comunità di Sulaymaniya che lui stesso aveva contribuito a fondare, continuò a denunciare le violenze e a cercare una strada per la pace. Quella di Raqqa fu una missione disperata. Padre Paolo era deciso a trattare direttamente con i miliziani jihadisti, nella speranza di ottenere la liberazione di alcuni ostaggi.
In quell’estate del 2013 la città era già in mano all’Isis, che l’aveva trasformata nella capitale del terrore. Nessuno ha più saputo nulla di lui. Le voci, tante e contraddittorie, lo volevano vivo, poi morto. Alcuni dissero che fosse stato giustiziato subito, altri che fosse tenuto prigioniero. La notizia di oggi riporta a galla un dolore mai sopito.
Se quel corpo fosse davvero il suo, sarebbe la fine di un’agonia per la famiglia e per la comunità dei gesuiti, ma anche la chiusura di un capitolo di speranze infrante. In attesa delle verifiche ufficiali, l’Italia e il mondo intero si stringono nel ricordo di un uomo che aveva fatto della parola «dialogo» la stella polare della sua vita. In un Paese dove il suono delle bombe soffocava ogni voce di pace, lui aveva scelto di restare. E forse, anche nella morte, è riuscito a testimoniare quel legame indissolubile con la terra e la gente che aveva amato.