C’è un momento, nella vita di ogni democrazia, in cui ci si rende conto che il mondo può essere ribaltato come un guanto. Per l’Italia è accaduto ieri, quando il Cremlino ha deciso che Sergio Mattarella è ufficialmente un “russofobo”. Non un critico, non un presidente che difende i valori europei: proprio un nemico pubblico da mettere alla gogna virtuale, con tanto di estratti di discorsi e accuse di “incitamento all’odio” verso la Russia.

Sul sito del ministero degli Esteri russo è comparsa una nuova sezione, una sorta di bacheca della vergogna digitale: “Esempi di manifestazioni di russofobia”. In mezzo a funzionari ucraini e leader occidentali, spunta anche l’Italia, con tre nomi: Mattarella, Antonio Tajani e Guido Crosetto. La colpa del Capo dello Stato? Aver osato ricordare, in una lectio magistralis a Marsiglia, che l’invasione dell’Ucraina richiama alla mente “il progetto del Terzo Reich”. Una frase che, nella sua semplicità, racchiude una lezione di storia elementare. Per Mosca, invece, è un atto di blasfemia geopolitica.

Come se non bastasse, la portavoce Maria Zakharova, sempre più star di questa diplomazia-spettacolo, ha deciso di trasformare la politica estera in un meme: ha lanciato su Telegram uno sticker in cui appare con abiti tradizionali russi e la parola “ukokoshit”, che significa “uccidere”. Un invito alla lotta contro la russofobia trasformato in merchandising digitale. Tra le matrioske e i motivi floreali, la scritta fa il giro dei social russi e raccoglie applausi e risate.

Dietro l’aspetto farsesco si nasconde però un disegno chiaro. La Russia ha bisogno di nemici simbolici, di figure da additare per mantenere acceso il fuoco interno della propaganda. Nel mezzo di una guerra che logora l’economia e la società russa, ogni parola occidentale diventa una pallottola retorica da esibire al pubblico di casa. In questo gioco, l’Italia offre un bersaglio perfetto: un presidente sobrio, due ministri con dichiarazioni istituzionali, nessun vero insulto. Basta e avanza per creare l’ennesimo atto del teatro putiniano.

Intanto, oltre l’Atlantico, il clima si fa incandescente. Donald Trump ha deciso di passare dalla diplomazia soft all’ultimatum: «Dieci giorni per fermare la guerra, poi tireremo le conclusioni», ha dichiarato sull’Air Force One, tornando dalla Scozia. Per la prima volta, la Casa Bianca ha fissato un countdown pubblico: il termine scade l’8 agosto. Ma dal Cremlino, la risposta è arrivata con un gelido “abbiamo preso nota”.

Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ha parlato di «rallentamento nei colloqui» e di «processo di pace non in movimento», quasi a voler mettere in scena la stanchezza diplomatica. Nessun passo avanti, solo tempo guadagnato, mentre sui canali ufficiali si costruisce la narrativa della fortezza assediata. La Russia appare così: divisa tra i fronti reali della guerra e il palcoscenico virtuale dove si combatte a colpi di liste nere e adesivi minacciosi.

Il paradosso è crudele e surreale insieme. Mentre il mondo aspetta gesti concreti, la diplomazia di Mosca si rifugia nel folklore digitale. Un presidente come Sergio Mattarella, che ha fatto della misura e della compostezza il proprio tratto distintivo, diventa nemico pubblico solo per aver ricordato che la libertà va difesa. L’effetto, agli occhi dell’Occidente, è di tragicomica impotenza: un Paese con migliaia di testate nucleari e un esercito immenso che sceglie di combattere la guerra delle parole contro un Capo dello Stato che non alza mai la voce.

Ma questa farsa non è innocua. Alimenta l’odio, consolida la narrativa della Russia assediata e, soprattutto, allontana la possibilità di un negoziato vero. Perché finché l’Occidente viene dipinto come un branco di “russofobi” da eliminare, ogni passo verso la pace diventa politicamente tossico a Mosca. Così il mondo resta sospeso: da una parte il conto alla rovescia di Trump, dall’altra la caricatura diplomatica del Cremlino. Nel mezzo, un’Europa che osserva e un’Italia che si ritrova suo malgrado protagonista di una lista nera da operetta.

E forse il punto più amaro è proprio questo: l’odio oggi viaggia in sticker, e la pace sembra un file che nessuno vuole scaricare.