Nel Novecento la sinistra aveva un compito chiaro: rappresentare il lavoro, organizzare il conflitto sociale, difendere i più deboli. Parlava con il lessico del popolo, dei sindacati, delle fabbriche. Aveva sedi, giornali, una cultura radicata. Oggi, in un mondo scomposto, digitalizzato, dominato da algoritmi e da un capitalismo sempre più finanziario, quella sinistra appare smarrita. Non solo in Italia, ma in buona parte dell’Occidente.

Le società contemporanee vivono una trasformazione profonda della questione sociale. I poveri non sono più soltanto i disoccupati o gli emarginati, ma spesso lavoratori a tempo pieno che non riescono a sostenere il costo della vita. I “working poor”, i precari, i riders, i freelance sottopagati: milioni di persone fuori dai radar della rappresentanza politica. Eppure sono loro i nuovi protagonisti di una diseguaglianza che cresce silenziosa.

Di fronte a questa realtà, la sinistra non riesce più a parlare una lingua comprensibile. Troppo legata a paradigmi novecenteschi, troppo impantanata nella gestione del potere, ha perso contatto con le periferie sociali ed esistenziali, sostituendo il conflitto con la moderazione, l’identità con il tatticismo.

In Italia, il Partito Democratico è lo specchio fedele di questa crisi. Nato nel 2007 dalla fusione tra ex comunisti ed ex democristiani, ha cercato per anni di tenere insieme istanze diverse senza mai riuscire a dare una risposta convincente alla domanda fondamentale: a chi parliamo? E per conto di chi?

Dopo Romano Prodi, unico leader capace di unificare davvero il campo progressista, il Pd ha bruciato segretari come fiammiferi: Veltroni, Franceschini, Bersani, Renzi, Zingaretti, Letta, ora Elly Schlein. Ciascuno portatore di una narrazione parziale, incapace di durare, spesso travolti da guerre interne e ambiguità ideologiche.

Con l’ascesa di Elly Schlein, il partito ha tentato una virata a sinistra, puntando su diritti civili, ambiente, lotta alle diseguaglianze. Ma senza una base popolare solida, senza un progetto sociale capace di mobilitare i nuovi ceti impoveriti, il rischio è quello di una sinistra culturalmente progressista ma socialmente irrilevante.

In questa fase confusa, il Pd ha cominciato a inseguire Giuseppe Conte, leader di un Movimento 5 Stelle trasformato da forza antisistema a soggetto post-populista. Conte, grazie al Reddito di cittadinanza e alla sua narrazione “dalla parte degli ultimi”, ha occupato lo spazio lasciato vuoto dalla sinistra. Ma l’alleanza tra Pd e M5s resta incerta, condizionata da diffidenze reciproche, differenze strategiche e ambizioni personali. E la rincorsa del Pd verso Conte appare più come un atto di debolezza che come una scelta politica coerente.

Quella italiana non è un’eccezione. In Francia, la gauche è divisa tra socialisti residuali e la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, incapace di costruire una vera alternativa a Macron e Le Pen. In Germania l’Spd perde consensi a favore dei Verdi ma anche dell’estrema destra dell’Afd. In Spagna, Pedro Sánchez resiste, governa con successo, ma è costretto a coalizioni sempre più precarie. In Regno Unito, i laburisti di Keir Starmer sono tornati al potere, ma pagando un prezzo: l’abbandono del radicalismo corbynista e una conversione centrista che somiglia più a un compromesso che a una visione.

Anche negli Stati Uniti, pur con la crescita dell’ala progressista attorno a Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez e altri, il Partito Democratico continua a muoversi in equilibrio tra Wall Street e i movimenti sociali, senza sciogliere i nodi di una società polarizzata e diseguale. Mentre Trump stravince e stragoverna, i democratici sono alla disperata ricerca di una nuova identità e di una vera leadership.

Oggi, la sinistra ha bisogno non solo di un linguaggio nuovo, ma di una nuova funzione storica. Non basta più rivendicare il passato, difendere lo status quo del welfare, opporsi alle destre. Serve una proposta radicale ma praticabile, che rimetta al centro i temi del lavoro, della redistribuzione, della dignità, della casa, dell’istruzione, della sanità, della lotta alle grandi diseguaglianze. Ma le divisioni interne spesso paralizzano il partito e si fanno sempre più forti i malumori della componente cattolica e moderata.

Occorre un progetto che riconosca le nuove fratture sociali: non solo tra capitale e lavoro, ma tra inclusi ed esclusi, tra città e periferie, tra generazioni, tra chi ha accesso al sapere e chi ne è escluso. La tecnologia, il cambiamento climatico, le migrazioni, la solitudine digitale: tutte queste sfide esigono una sinistra capace di interpretarle, non solo di rincorrerle.

La crisi della sinistra è anche una crisi del coraggio. Per paura di perdere pezzi, ha smesso di scegliere, di prendere posizione, di nominare il nemico. Ma senza un “noi” e un “loro”, la politica diventa solo gestione. E la sinistra non è mai stata solo amministrazione: è stata passione, speranza, conflitto, immaginazione del futuro.

La rinascita non verrà da un nuovo leader carismatico, ma da una riscoperta della funzione storica della sinistra in un mondo diseguale. Senza questo salto, continuerà a restare una presenza nostalgica o minoritaria. E la democrazia, priva di una vera opposizione sociale, sarà ancora più fragile.

(Con il contributo esterno di Francesco Vilotta e Luca Falbo)