Il ministro parla di “rivoluzione meritocratica”, ma l’articolo 97 della Costituzione rischia di essere svuotato. Con la scusa dell’efficienza, si apre la strada a promozioni opache e interne, dove la vera competenza cede il passo alla cooptazione e alla lealtà personale
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È stata approvata in Consiglio dei Ministri una proposta di legge che, a detta del Governo, dovrebbe “rivoluzionare la Pubblica Amministrazione” nel nome del merito. A presentarla è il Ministro per la Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo, che la definisce “un passo fondamentale verso un’amministrazione più efficiente e valorizzante”. Ma basta leggere tra le righe per scoprire che la parola magica – merito – rischia di diventare un cavallo di Troia.
Il cuore della riforma è una misura che modifica alla radice il meccanismo di accesso alla dirigenza. Oggi, per diventare dirigente nella PA serve un concorso pubblico. Domani, se la legge passerà, potrebbe non essere più così. I funzionari interni potranno ottenere la promozione a dirigente sulla base di una valutazione delle loro “performance”. Senza prove selettive, senza confronto esterno, senza trasparenza. Basta il parere dei superiori.
L’obiettivo dichiarato è premiare chi ha maturato esperienza sul campo. Il rischio reale, invece, è istituzionalizzare una dinamica che esiste già, ma sottotraccia: quella della fedeltà che conta più della competenza, della promozione come premio alla docilità. Dove oggi il concorso pubblico è una garanzia di equità e imparzialità, domani potrebbe diventare un fastidio da aggirare.
Perché il punto non è solo tecnico, ma costituzionale. L’articolo 97 della Costituzione non è un optional: stabilisce che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”. È una norma nata per garantire che l’amministrazione dello Stato sia davvero al servizio dei cittadini e non delle clientele. È la diga contro il nepotismo, il favoritismo, le promozioni per conoscenza.
Certo, il sistema dei concorsi non è perfetto. È lento, a volte inefficiente, e certamente migliorabile. Ma è l’unico strumento oggettivo di selezione a disposizione. Le prove sono anonime, le correzioni trasparenti, l’accesso aperto a tutti. Togliere il concorso come vincolo per accedere alla dirigenza significa aprire un varco pericoloso: quello della discrezionalità.
Discrezionalità che, in un’amministrazione ancora troppo permeabile alla politica, rischia di trasformarsi in arbitrio. Chi valuterà la performance? Con quali criteri? E soprattutto: quanto conterà l’effettiva capacità professionale, rispetto alla disponibilità a eseguire gli ordini, a non disturbare, a schierarsi col dirigente giusto?
Il nuovo sistema rischia di diventare un labirinto autoreferenziale, dove si cresce solo restando all’interno, obbedendo e aspettando il proprio turno. Dove chi è fuori – magari giovane, preparato, con esperienze private o internazionali – non avrà alcuna possibilità di accedere. Perché il nuovo percorso verso la dirigenza sarà blindato per gli “interni”. E il rischio di riprodurre caste, gerarchie informali e carriere preconfezionate è altissimo.
Si parla di merito, ma si costruisce un meccanismo che esclude la concorrenza, rende opache le scelte e disincentiva l’innovazione. Si parla di efficienza, ma si premia l’adattabilità, non la qualità. Si dice di voler attrarre i giovani migliori, ma si manda un messaggio chiarissimo: in questo sistema si sale se piaci a chi comanda, non se sei bravo.
E mentre si alza la bandiera del cambiamento, si dimentica che l’Italia ha già conosciuto – e pagato a caro prezzo – stagioni in cui la PA era selezionata più per fedeltà che per competenza. Il clientelismo amministrativo, una delle piaghe storiche del Paese, nasceva proprio dalla mancanza di filtri trasparenti. Per questo la Costituzione volle fissare il principio del concorso: perché la burocrazia fosse imparziale, indipendente e competente.
Questa riforma, con la scusa della modernità, rischia di rovesciare quella logica. Di riportarci indietro. Di costruire una PA dove la meritocrazia è solo uno slogan e dove la cooptazione – magari rivestita da qualche foglia di fico regolamentare – diventa la prassi.
Il Governo dice di voler “valorizzare l’esperienza”. Ma l’esperienza, senza confronto, diventa abitudine. E l’abitudine, senza controllo, diventa privilegio. Se davvero si vuole una PA migliore, servono meccanismi nuovi, certo. Ma più aperti, non più chiusi. Più trasparenti, non più opachi. Più esigenti, non più discrezionali.
La vera riforma non è quella che gratifica i fedelissimi. È quella che seleziona chi ha talento, idee, visione. E che lo fa secondo regole chiare, giuste, accessibili. Perché l’Italia ha bisogno di una Pubblica Amministrazione all’altezza delle sfide. Non di una struttura premiale per chi sta zitto, obbedisce e aspetta.