«Non permetteremo che un altro governo comunista si insedi nell’emisfero occidentale». Le parole pronunciate da Donald Trump mentre firma il memorandum che inasprisce le sanzioni contro Cuba sembrano riecheggiare quelle pronunciate sessant’anni fa da John Fitzgerald Kennedy durante la crisi dei missili.
Come in un déjà-vu della storia, Washington torna a utilizzare l’arma dell’embargo per piegare L’Avana, dimenticando che proprio quella strategia, nel 1962, portò il mondo sull’orlo della guerra nucleare.

Il nuovo pacchetto di sanzioni firmato da Trump non si limita a vietare il turismo statunitense sull’isola caraibica, ma impone controlli draconiani su tutte le transazioni finanziarie con le entità controllate dalle forze armate cubane, in particolare il conglomerato GAESA.
Una mossa che ricorda drammaticamente l’escalation di tensione iniziata nel 1960, quando l’amministrazione Eisenhower decise di tagliare le quote dello zucchero cubano sul mercato americano, spingendo così Fidel Castro tra le braccia dell’Unione Sovietica.

La storia insegna che gli embarghi, più che colpire i regimi, strangolano le popolazioni. Nel 1962, l’isolamento economico di Cuba non fece altro che rafforzare la presa di Castro sul Paese e fornire a Krusciov il pretesto per installare i missili nucleari a novanta miglia dalle coste della Florida. Oggi, sei decenni dopo, la Casa Bianca sembra ignorare quella lezione, reiterando una politica che ha dimostrato solo di alimentare tensioni e sofferenze.

Le nuove restrizioni, che includono l’obbligo per i viaggiatori di conservare i registri delle loro attività sull’isola per almeno cinque anni, sembrano più un tentativo di cancellare l’eredità delle aperture dell’amministrazione Obama che una strategia efficace per promuovere il cambiamento politico. Come negli anni Sessanta, quando l’embargo spinse L’Avana a cercare nuove alleanze, anche oggi queste misure rischiano di spingere Cuba verso altri partner internazionali.

La decisione di Trump di reinserire Cuba nella lista dei Paesi sponsor del terrorismo ha ulteriormente complicato il quadro diplomatico. Una mossa che ricorda da vicino le tensioni del 1962, quando l’amministrazione Kennedy etichettò il regime castrista come una minaccia alla sicurezza nazionale. Allora come oggi, questa retorica servì più a irrigidire le posizioni che a favorire il dialogo. Non a caso, dopo quella decisione, Krusciov accelerò l'installazione dei missili nucleari sull’isola, portando il mondo a tredici giorni dal baratro atomico.

Il paradosso è che le sanzioni economiche, lungi dall’indebolire il regime cubano, potrebbero rafforzarne la narrativa anti-americana. Come negli anni della crisi dei missili, quando l’embargo spinse L'Avana a dipendere sempre più da Mosca, anche oggi queste misure rischiano di spingere Cuba a cercare sostegno presso potenze rivali degli Stati Uniti.

Un calcolo geopolitico che, alla luce della storia, si è dimostrato pericolosamente miope. «Questi berretti con le greche hanno un grande vantaggio», disse sarcasticamente Kennedy durante la crisi dei missili riferendosi ai falchi che spingevano per un’azione militare, «se diamo loro ascolto, dopo nessuno di noi sarà vivo per poter dire loro che avevano torto». Oggi, mentre l’amministrazione Trump resuscita i fantasmi della Guerra Fredda, quelle parole suonano come un monito inascoltato.

La guerra dei dazi e delle sanzioni economiche, ieri come oggi, si rivela essere uno strumento spuntato della diplomazia internazionale. Un’arma che, come dimostrò la crisi dei missili di Cuba, può trasformarsi in un pericoloso boomerang. L’esperienza del 1962 ci insegna che l’isolamento diplomatico ed economico raramente produce i risultati sperati.
Al contrario, può innescare una spirale di tensioni dalle conseguenze imprevedibili. Perché la storia, quando viene dimenticata, ha la cattiva abitudine di ripetersi. E non sempre con lo stesso lieto fine. La crisi dei missili di Cuba si concluse con un compromesso tra le superpotenze. Oggi, in un mondo multipolare e sempre più complesso, la diplomazia delle sanzioni rischia di essere non solo inefficace, ma potenzialmente destabilizzante per gli equilibri internazionali.