New York ha visto sindaci di ogni tipo. Manager, miliardari, outsider, riformatori, poliziotti-sceriffi, tecnocrati dal sorriso rassicurante. Ma mai un’onda così. Mai una febbre simile. Mai un candidato capace di ribaltare l’aria, di cambiare il respiro delle strade, di trasformare la politica urbana in un rito collettivo generazionale.

Uscire per votare in anticipo, in un sabato di pioggia, e trovarsi davanti una fila che piega l’isolato non è normale. Non lo è neanche vedere decine di ragazzi, zaini in spalla e sguardo febbrile, che volantinano come se stessero difendendo un ideale più grande di loro, più grande della città stessa. Eppure è accaduto. Accade ancora. Una generazione compressa dal costo della vita, dai debiti studenteschi, da affitti folli, da una precarietà psicologica e materiale diventata identità condivisa, ha trovato il suo volto, la sua voce, la sua bandiera.

Zohran Kwame Mamdani, 34 anni, figlio di un noto professore ugandese-indiano e di una regista, cresciuto nel Queens, musulmano praticante e socialista dichiarato. Una formula che fino a qualche anno fa sarebbe sembrata impossibile per guidare New York, la città dei grattacieli, delle banche, dell’11 settembre, dello scontro permanente tra intensità e paura.

E invece eccolo. Con i suoi comizi infuocati e disciplinati, la retorica dell’inclusione che però non indulge mai nel sentimentalismo, un programma che molti definivano utopia e che oggi suona come un manuale di sopravvivenza urbana: blocco degli affitti, stop agli sfratti, trasporti pubblici gratis, asili e scuole accessibili a tutti, supermercati comunali contro la speculazione. Non promesse vuote: strumenti concreti nelle mani di un sindaco che, nel sistema americano, ha poteri enormi. Molto più che in Europa. New York non è un municipio, è un micro-Stato. Con le sue leggi, il suo budget, la sua polizia, la sua influenza culturale planetaria.

E allora sì, qui può succedere. E proprio per questo la tensione è palpabile. Nelle strade di Staten Island, dove i patriottismi sono scolpiti nella memoria dei caduti dell’11 settembre, il nome Mamdani fa stringere mascelle. A Williamsburg, tra le comunità ebraiche chassidiche, è circolato un volantino: «Un voto per lui è un voto contro Israele». Più di mille rabbini hanno firmato una lettera che invita a fermarlo. A Manhattan, tra i palazzi di vetro dei fondi e delle grandi banche, l’aria è più sottile: curiosità, timore, qualche incontro riservato per capire chi è davvero questo ragazzo che parla di capitalismo come fosse una malattia del secolo scorso. Eppure i giovani non si spaventano. Sembrano non vedere ostacoli. «Non è solo una campagna, è la nostra vita che cambia», dice una ragazza all’uscita da un seggio anticipato di Harlem. «Abbiamo provato tutto. Biden ci ha delusi. Trump ci terrorizza. Questo è l’unico futuro che vediamo».

La «Generazione Gaza», la chiamano. Quella che ha fatto del conflitto israelo-palestinese una lente etica globale. Non solo un fatto geopolitico, ma un prisma per leggere potere, abuso, autorità, ingiustizia. Mamdani parla di Palestina, e lo fa senza filtri. Non accenna, non sfuma, non si nasconde dietro le formule diplomatiche. Per questo divide, incendia, mobilita. Per questo affascina e spaventa. Un docente di Scienze politiche alla Columbia, guardando ai suoi studenti, lo spiega così: «Sono radicali perché hanno vissuto solo crisi: guerra, pandemia, inflazione, precarietà. Cercano una nuova grammatica politica. Mamdani gliela sta dando».

Ma c’è un’ombra. Sempre la stessa, che accompagna ogni rivoluzionario quando si avvicina al potere. L’ombra del compromesso. Lo stesso professore nota che già lo si vede stringere mani che fino a pochi mesi fa avrebbe indicato come “il sistema”. Lo si vede entrare negli uffici dei banchieri che giurano di “aiutarlo”. Lo si vede fare ciò che ogni politico, alla fine, deve fare: trattare. I ragazzi lo sanno. E temono un nuovo Obama – idolo giovanile, poi inglobato dal meccanismo che voleva cambiare. Ma oggi non è tempo di cinismo. È tempo di febbre. Di attesa. Di respiro trattenuto.

New York è di nuovo il centro del mondo, non per una tragedia, non per un crollo, non per un tracollo finanziario. Ma per un esperimento politico e umano. Se Mamdani vincerà, la città aprirà una porta che qualcuno voleva sigillare per sempre. Se perderà, resterà comunque un segnale incandescente, un avvertimento alle élite, un promemoria che la storia non finisce mai davvero. Intanto, la notte americana si prepara a parlare. E i ragazzi, quelli dei volantini e delle code ai seggi, stringono i pugni in tasca. Sognano una città nuova. Un mondo nuovo. E sussurrano, quasi pregando, sotto i grattacieli che toccano il cielo: «Please, let this be our time». Che sia il nostro momento!