Nel 1950, Schuman trasformò il carbone in pace. Oggi, tocca a noi trasformare l’indifferenza in coraggio
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Il 9 maggio del 1950, in un mondo ancora ferito dalla guerra e in una Parigi che portava addosso le cicatrici dell’occupazione nazista, un uomo pronunciò parole che avrebbero cambiato il destino del continente. Quelle parole non erano solenni. Non erano poetiche. Erano semplicemente necessarie.
Robert Schuman, ministro degli Esteri francese, parlava in piedi, senza proclami, con la voce tremante di chi sa che la storia non ama le frasi ad effetto, ma le decisioni irrevocabili. Disse che la pace in Europa poteva costruirsi solo con azioni concrete, con una “solidarietà di fatto”, non con appelli astratti. Propose che Francia e Germania, nemiche per secoli, mettessero insieme le loro produzioni di carbone e acciaio, le stesse che avevano alimentato due guerre mondiali. Era come chiedere a due nemici di condividere le armi — per costruire ponti invece di trincee.
Nasceva così la prima cellula dell’Unione Europea.
Oggi sono passati 75 anni. Ma il tempo, si sa, non garantisce maturità.
Viviamo nell’Europa più ricca e più libera della sua storia. Eppure, mai come adesso, l’Unione rischia di confondersi con la sua caricatura. Un’Europa di vincoli ma non di visioni, di regolamenti ma non di coraggio, di moneta ma non di anima. Siamo passati da Schuman a Schengen, da Maastricht ai Recovery Fund. Ma non basta un trattato per dire che esistiamo. Serve volontà politica. E serve identità.
Perché oggi l’Europa è chiamata a scelte che non possono più essere rimandate.
Una guerra ai confini orientali ci obbliga a ripensare cosa voglia dire “pace” e cosa voglia dire “difesa comune”.
Non possiamo continuare a delegare la pace collettiva alla NATO e agli umori di Washington.
La crisi climatica ci impone un Green Deal che non sia una somma di bonus e compromessi, ma una transizione epocale.
Una rivoluzione industriale verde, sociale, culturale. O sarà fallimento.
La pressione migratoria e la fragilità delle istituzioni democratiche ci interrogano su cosa significhi essere “comunità” e non solo “mercato”.
Non è con i fili spinati né con la burocrazia che si costruisce un destino comune.
E poi c’è la questione più urgente di tutte: la democrazia.
L’Europa è nata per difendere la libertà, non per cedere al suo opposto. Il dilagare di regimi autoritari mascherati da legalità, la propaganda, la censura, l’odio normalizzato sui media: tutto questo accade anche dentro i nostri confini. L’Unione può ancora chiamarsi tale se tollera al suo interno governi che calpestano i diritti umani?
Il 9 maggio dovrebbe essere una giornata di riflessione civile, non solo una celebrazione rituale.
Abbiamo celebrato Schuman come padre fondatore. Ma un padre, in politica, non è qualcuno da commemorare. È qualcuno da tradire, ogni giorno, nel senso più alto del termine: superarne i limiti, radicalizzarne l’intuizione, spingersi oltre.
L’Europa di oggi ha bisogno di una nuova dichiarazione. Non pronunciata da un politico. Ma da ciascuno di noi.
Perché l’Europa non si fa nelle istituzioni, ma nelle coscienze. Nell’educazione che trasmettiamo, nei giornali che scriviamo, nella verità che non abbiamo paura di dire. Nell’idea che non si è europei perché si ha un passaporto, ma perché si crede che la solidarietà sia una forza rivoluzionaria.
Nel 1950, Schuman trasformò il carbone in pace. Oggi, tocca a noi trasformare l’indifferenza in coraggio.
Questa è l’Europa che può ancora esistere. Ma solo se avrà il coraggio di non limitarsi a ricordarsi di sé una volta all’anno.