Sciascia metteva in guardia contro certe storture: ben vengano le azioni contro le organizzazioni criminali ma la bussola deve essere sempre il rispetto delle garanzie costituzionali
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La mafia, prima di essere un fenomeno criminale, è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani, o sociali, ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Era questo il pensiero di Leonardo Sciascia, autore visionario che fu anche tra i primi a denunciare il rischio di una deriva: quella dei “professionisti dell’antimafia”, figure che, in nome della lotta alla criminalità organizzata, finiscono per esercitare un potere incontrollato, spesso al di fuori delle garanzie costituzionali.
Già molti anni fa, lo scrittore siciliano, con la sua penna acuta, metteva in guardia contro l’uso strumentale dell’antimafia, laddove la retorica della legalità può trasformarsi paradossalmente in una nuova forma di oppressione. La sua critica non era rivolta alla necessità di combattere la mafia, ma al modo esclusivamente repressivo in cui questa lotta veniva condotta, spesso con metodi che calpestavano i diritti fondamentali degli individui, non tenendo conto dei processi sociali che innescano il fenomeno.
Molti anni dopo, questa profezia si è trovata realizzata attraverso alcune misure estreme del codice antimafia, codice che prevede una numerosa serie di misure preventive, sia patrimoniali che personali, ben prima della verifica di eventuali reati. Figlie di un pensiero giustizialista e basato sul semplice sospetto, nel panorama giudiziario italiano, le misure preventive rappresentano da sempre uno strumento controverso.
Non sono mancati i casi in cui esse sono state spesso applicate nella totale assenza di prove concrete, basandosi su sospetti, castelli di carta o presunzioni. Questo approccio, frettoloso e iper repressivo, ha sollevato numerosi interrogativi sulla compatibilità di queste norme con i principi dello Stato di diritto, principi che prevedono la presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva. Il penalista Giovanni Fiandaca ha sottolineato come l’uso eccessivo delle misure preventive possa minare le fondamenta della democrazia, trasformando il diritto penale in uno strumento molto più vicino alle forme di controllo sociale, piuttosto che alla tutela della giustizia.
La presunzione di innocenza, cardine del nostro ordinamento, infatti rischia di essere svuotata di significato quando le persone vengono sottoposte a restrizioni senza una condanna definitiva. Anche il compianto Stefano Rodotà, nella sua attività al servizio della garanzia della privacy, era più volte intervenuto contro lo svuotamento delle garanzie costituzionali in nome dell’efficienza, sottolineando come simili strumenti possano aprire la strada a un'autorità pubblica sempre più invasiva nella vita privata.
Per essere colpiti da queste misure non occorre una condanna, non serve una sentenza: basta il semplice sospetto di un magistrato. Attraverso l’ombrello della emergenza sociale, in un attimo, l’ordinanza di un giudice può congelare un’impresa, chiudere un conto, revocare una licenza. E con quell’atto, si spegne una vita sociale ed economica, si spezza una rete di rapporti, si insinua il dubbio dove prima c’era una vita normale.
Chi subisce una misura preventiva viene spesso consegnato, secondo un paradigma inquisitorio, all’ombra del sospetto, al margine della comunità. Il danno d’immagine è irreparabile: clienti che fuggono, collaborazioni che si interrompono, amici che tacciono. Un’azienda può fallire, una famiglia può perdere ogni sicurezza, e tutto ciò prima ancora che un tribunale abbia accertato una colpa. Nella realtà, infatti, poi le indagini, soprattutto quelle che avvengono nel clamore dei media, portano sempre ad un numero di condanne esiguo.
Ad esempio, l’inchiesta “Why Not”, condotta da Luigi de Magistris, ha coinvolto inizialmente 42 indagati nel con 8 condanne e 34 assoluzioni, per chi ha scelto il rito abbreviato. Nel rito ordinario, le condanne sono state ridotte a 2.
Non è andata meglio all’inchiesta di Gratteri “Rinascita Scott” che ha prodotto, su 343 rinvii a giudizio, solo 67 condanne. Come si vede dai dati oggettivi, nonostante l’imponente sforzo investigativo, il numero significativo di assoluzioni e prescrizioni dimostra ancora di più i dubbi sull’efficacia delle strategie sensazionalistiche adottate nella lotta alla criminalità organizzata, facendo diventare centrale la necessità di garantire un equilibrio tra sicurezza, lotta al crimine e diritti individuali. Ma come in ogni fenomeno sotto i riflettori, spesso, i diritti individuali passano sempre in secondo piano.
Spesso l’azione investigativa viene guidata da un uso ai limiti della legalità delle intercettazioni telefoniche, strumento che, seppur potente, rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Il cittadino non è più tutelato dalla riservatezza, ma spiato, analizzato, dissezionato nei suoi discorsi più banali, nelle sue fragilità quotidiane. Frammenti di conversazioni, stralci decontestualizzati, battute dette con leggerezza o esasperazione, diventano "prova morale" di colpevolezza. E quando quelle intercettazioni giungono alla stampa – ben prima che siano vagliate da un giudice – la condanna pubblica è già pronunciata.
I media, in una corsa al sensazionalismo, amplificano ogni parola captata, titolando con toni scandalistici, fomentando l’indignazione collettiva. L’opinione pubblica si trasforma in tribunale, e l’imputato in un colpevole presunto, senza possibilità di difesa. Così, il diritto alla reputazione viene sacrificato sull’altare dell’audience, e la persona, ancora formalmente innocente, è già rovinata socialmente, professionalmente, umanamente.
In questo scenario, la somiglianza con le pratiche della Stasi, la famigerata polizia politica della Germania Est, si fa inquietante. Anche lì si usavano intercettazioni e dossier segreti per controllare, intimidire, distruggere esistenze. Non servivano prove, bastavano sospetti. Non servivano processi, bastava il giudizio dello Stato. In un contesto democratico come il nostro, l’uso improprio delle misure preventive e delle intercettazioni rischia di aprire una falla profonda: una sorveglianza senza contraddittorio, un’invasione della sfera privata che non lascia scampo, giustificata da una eccessiva amplificazione di problemi che, in realtà, sono molto più limitati di quello che si ritiene.
A chi è nato al sud, poi, si tende molto più frettolosamente ad appicciare il bollino del mafioso, o del criminale, in una deriva censoria che non è propriamente tipica degli stati democratici. Concludendo, come ricordava Gherardo Colombo la giustizia deve essere separata dalla vendetta e lontana dal carrierismo; essa non può trasformarsi in una nuova forma di oppressione. È necessario un impegno costante per garantire che le azioni contro la mafia siano condotte nel rispetto delle garanzie costituzionali, affinché la legalità non diventi un pretesto per violare i diritti che essa stessa dovrebbe tutelare.