Il solito Renzi rimesta nelle macerie del Pd alla ricerca dei colpevoli della sconfitta

L’assemblea nazionale del partito ha eletto Martina segretario pro tempore in vista del congresso che si terrà prima delle Europee del 2019. Ma è l’ex presidente del Consiglio che ha dominato la scena, puntando il dito contro le minoranze: «Perderete di nuovo la segreteria e il giorno dopo vi lamenterete come sempre»

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di Enrico De Girolamo
7 luglio 2018
18:56
Matteo Renzi
Matteo Renzi

«Si, però, quando parla Renzi è sempre Renzi». C’era anche il solito rimpianto per quello che poteva essere e non è stato ad animare questo pomeriggio il post partita dell’assemblea nazionale del Pd, che si è tenuta oggi all’Hotel Ergife di Roma.

 


Un appuntamento che ha formalizzato scelte già prese, con l’investitura ufficiale di Maurizio Martina, che passa da segretario reggente a segretario pro-tempore, con il compito di condurre il partito al congresso del prossimo anno, che si dovrebbe comunque tenere prima delle elezioni Europee. I congressi regionali, invece, dovrebbero tenersi in autunno, secondo il ruolino di marcia imposto da Martina, che ha proposto l’avvio di «un percorso congressuale straordinario da qui a prima delle Europee che ci porti a elaborare idee, persone, strumenti nuovi. Dobbiamo riorganizzare tutto».

 

Sempre in autunno, ad ottobre, il segretario immagina «un grande appuntamento che si rivolga al Paese». «Chiedo di poter fare un lavoro ricostruttivo e rifondativo - ha detto -: in ballo ci sono le ragioni fondative del Pd».
Ma tutto ciò è avvenuto dopo che Renzi aveva già parlato, sfidando l’assemblea col suo solito piglio, quello di chi ancora crede di essere e probabilmente è centro di gravità di un partito ridotto ai minimi storici di consenso.

 

L’ex presidente del Consiglio ha puntato il dito soprattutto contro le divisioni interne, animate da «chi perde il congresso e il giorno dopo vuole rimettere tutto in discussione». «Il nostro problema non è stabilire la data di inizio del congresso, ma quella della sua fine», ha spiegato mettendo sul banco degli imputati le minoranze interne.

 

«Smettiamola di considerare nemici quelli accanto a noi», ha esortato. È stato in quel momento che dalla platea, che in parte applaudiva fino a spellarsi le mani e per la restante scuoteva la testa, si è sentito: «E allora Marino?». Come dire, sei stato tu a cominciare sfiduciando il sindaco della Capitale e costringendolo a fare armi e bagagli. Punto sul vivo, Renzi non è arretrato. Si è prima giustificato prendendo le distanze dai fatti romani dell’autunno 2015, dicendo che in quel momento era impegnato a guidare il Paese e non aveva tempo di occuparsi delle dispute capitoline nelle viscere del partito, ma poi ha contrattaccato, lanciando il suo anatema: «Ci rivedremo al congresso, perdete un’altra volta e il giorno dopo tornerete ad attaccare chi ha vinto».

 

Il senatore di Scandicci, collegio nel quale è stato eletto il 4 marzo scorso, ha poi rivendicato la scelta di non accordarsi con i Cinquestelle, definiti una corrente interna della Lega. «Ho combattuto come un leone per oppormi - ha detto - perché chi vince le elezioni deve governare, e hanno vinto M5S e Lega. Se avessimo fatto coalizione con M5S o con il centrodestra avremmo mandato all'opposizione i vincitori delle elezioni e sarebbe stata una ferita per il Paese. Avrebbero detto che nessuno rispetta la democrazia. Se avessero vinto quelli che dicevano accordo M5S-Pd avremmo avuto una profonda ferita costituzionale. Rispetto chi dice che il M5S è la nuova sinistra, sono cantanti, intellettuali, ma io trovo che sia la vecchia destra. Non potremo mai perdonarli di aver trasformato la lotta politica in Italia in una rissa. Hanno inquinato le falde della democrazia. C'è una componente di centrosinistra nel M5s? Possono prendere il bus e pagare i contributi alle colf - ha concluso alludendo a Roberto Fico - ma restano una corrente della Lega».

 

Sulle cause della sconfitta, Renzi ha indicato «i toni e i tempi della campagna elettorale» e la mancanza di leadership. «Non è l’algida sobrietà che fa sognare un popolo - ha detto lanciando una stilettata a Gentiloni in prima fila - devi dare un orizzonte forte al Paese. Invece, non abbiamo dettato l'agenda: sullo ius soli dovevamo decidere, o si metteva la fiducia a giugno o si smetteva di parlarne. Io l'avrei fatto perché fondamentale».

 

Non un intervento pacificatore il suo, nessuna voglia di farsi da parte, nessuna intenzione di comprimere il proprio Ego. L’ex presidente del Consiglio ha fatto quello che sa fare, il mattatore, catalizzando ancora una volta la platea e dividendola in renziani e anti-renziani.

 

«Quello che più mi ha colpito dell'intervento di Matteo e un po' anche mi è dispiaciuto - ha detto Nicola Zingaretti, in pole position per il congresso che verrà - è che alla fine non si predispone mai all'ascolto degli altri, delle ragioni degli altri. Per un leader è un grandissimo limite».


Enrico De Girolamo

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