La Calabria a luci spente. In un Paese al buio

La riflessione di Silvia Marino: «Se vogliamo che la politica riacquisti una nuova umanità dobbiamo ricostruire una base di valori comuni e tenere insieme le tante energie che oggi sono ai margini della vita democratica e che chiedono di essere rappresentati»

18 giugno 2019
18:31
Un’auto a fari spenti
Un’auto a fari spenti

di Silvia Marino


La preziosa lettura sul regionalismo calabrese meno recente “Calabria Fuori - Al Governo di una Regione difficile di Politano/Marullo” (ed. 1991), ricercata per approfondire le dinamiche politiche di quel dato periodo storico, ripropone il percorso immutabile di una terra, dove i problemi economici e sociali, piuttosto che trovare soluzione, si tramandano, da una generazione a quella successiva, da una classe dirigente a quella che la sostituisce.



Le battaglie avviate fin dalla metà degli anni ’80 per qualificare il lavoro e creare nuove occasioni di occupazione e sviluppo, per migliorare l’utilizzo delle risorse comunitarie, per arginare le disuguaglianze sociali, oppure per garantire una più efficace lotta alla mafia, erano i punti fondamentali dell’agenda di governo di quegli anni. Così come il rinnovamento della classe dirigente all’interno dei Partiti Politici e delle Istituzioni. Il tutto racchiuso nel tentativo politico, allora dirompente, di dare vita ad un’alleanza di sinistra per il governo regionale, in alternativa alla Democrazia Cristiana ed in controtendenza rispetto al quadro politico nazionale di quegli anni.


Si parla del tentativo di governare una Regione difficile, che ha rappresentato un pezzo importante della questione meridionale, riformando non solo le alleanze politiche ma soprattutto l’approccio ai problemi del nostro territorio, nella consapevolezza della inadeguatezza, almeno di una parte, della classe dirigente che i partiti politici e la società nel suo insieme, erano in grado di esprimere.


Finanche un documento dei Vescovi italiani in quegli anni, denunciava la questione morale chiamando in causa il comportamento delle classi di governo. In Calabria, più che altrove le classi dirigenti hanno manifestato e manifestano ciò che i meridionalisti hanno definito una “storica inadeguatezza ad assumere una piena responsabilità culturale e politica verso quella parte del Paese che rappresentano. Si tratta di una inadeguatezza che non è soltanto incapacità, ma è soprattutto frutto di una visione della politica come affare, come potere, come gestione della clientela.” Ancora oggi, il costante appello dei Vescovi e della Chiesa calabrese, spinge chi ricopre incarichi di particolare responsabilità a trovare quel supplemento di impegno e di eticità, necessario al ruolo pubblico che si ricopre.


Sono passati trent’anni e nonostante i tentativi, più o meno coraggiosi, di chi si è alternato alla guida dell’Ente Regione e nonostante l’impegno dei Governi nazionali che hanno destinato ingenti risorse per lo Sviluppo del Mezzogiorno, le criticità che attanagliano la nostra terra piuttosto che trovare soluzione si sono cristallizzate ed acuite nel tempo. Rispetto alla complessità dei problemi da affrontare, ha acquisito visibilità e potere una classe dirigente sempre più mediocre. Non esistono territori ostaggio di problemi irrisolvibili, ma difficoltà che si affrontano, con impegno, passione e competenza.


Oggi la Calabria è una regione commissariata, nella politica e nelle Istituzioni, privata di ogni forma di autonomia gestionale. Ritenuta incapace di gestire processi di sviluppo economico, sociale e finanche di partecipazione democratica alla vita politica.


La Calabria procede a luci spente da tanti, troppi anni, senza che, abbiano trovato applicazione adeguate politiche sanitarie, sociali, occupazionali. La mancanza di lavoro ruba il futuro ad intere generazioni di giovani, la mancanza di protezione sociale rende le nostre comunità più fragili.


Certo, l’ignavia non è più consentita. Il nostro tempo impone a tutti ed a ciascuno, ognuno per la propria parte, di dedicare il massimo impegno alla costruzione di un progetto condiviso di futuro.
L’attuale momento storico, non può essere affrontato nella solitudine della propria appartenenza, in Italia come in Calabria, impone di raccogliere in un fronte democratico tutti quei mondi che condividono valori e impegno sociale. La ricerca del bene comune, la capacità di fare rete con quel mondo cattolico che cerca non solo rappresentanza ma impegno sociale diretto, nel tentativo di salvare quel che resta dell’umanità del Paese.


Un Paese al buio, ostaggio dell’odio e del rancore elevati a tratti identitari del nuovo potere; incapace di farsi carico dei bisogni reali di un popolo stremato dalla lunga crisi economica.
Dovrebbe essere naturale per la sinistra, moderata o radicale che sia, andare a presidiare quel campo di valori che identifica la scelta democratica che il nostro Paese ha compiuto dopo aver patito i conflitti del secolo scorso.
Ma il Partito Democratico è in ritardo rispetto all’ansia di riscatto del Paese. Si è dovuto contare in un congresso, arrivato troppo tardi, che non ha offerto argomentazioni di merito, ma l’esclusiva contrapposizione dei gruppi dirigenti, alimentata dal fragilissimo strumento delle “primarie”.


Alla fine anche la politica è stata commissariata ed il gruppo dirigente calabrese messo all’angolo.
Con i “commissariamenti” si può provare a gestire l’ordinario mentre in Calabria è necessario un impegno straordinario del Partito Nazionale per garantire una condivisa e rinnovata partecipazione democratica alla vita del partito. Un impegno da condividere con chi conosce il territorio e può provare a mettere insieme storie e valori.


La deriva individualista che accompagna questo particolare momento storico, non offre al Paese delle leadership equilibrate, pertanto, diventa indispensabile valorizzare una classe dirigente matura, seria, preparata. Una classe dirigente “allargata” fatta da imprenditori, sindacati, intellettuali, magistrati, giornalisti e naturalmente da politici. Una società civile le cui componenti abbiano come fine ultimo l’interesse generale del Paese o della comunità nella quale si opera. Allarghiamo il campo ancora di più, è classe dirigente, chiunque, svolgendo il proprio lavoro con passione e onestà, per quanto umile lo stesso possa apparire, dà un contributo alla comunità nella quale vive ed opera. E rafforzare la propria comunità significa assicurare migliori condizioni di vita per tutti.


Ci sono tante occasioni per imprimere una svolta all’autoreferenzialità di apparato dei partiti. Ci sono tante occasioni per dare voce e volto alle migliori competenze, all’impegno ed al coraggio di combattere per valori condivisi.
Se vogliamo che la politica riacquisti una nuova umanità, dobbiamo ricostruire una base di valori comuni e tenere insieme le tante energie che oggi sono ai margini della vita democratica e che chiedono di essere rappresentati. Costruire semplici alleanze elettorali non è sufficiente, bisogna regalare una speranza collettiva. Perché la sinistra, o meglio la politica, è un pensiero, una presenza, una comunità. Una identità.

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