Il Piano strategico nazionale per le aree interne parla apertamente di «territori da accompagnare con dignità verso il declino», e mentre il ministro Tommaso Foti firma una relazione che sancisce l’irreversibilità dello spopolamento nei piccoli comuni, in Italia si moltiplicano i rapporti che descrivono la deriva demografica come un fatto compiuto.

È una linea di pensiero che si afferma nei documenti ufficiali e che inizia a orientare le scelte politiche: accorpare, tagliare, disinvestire. Un’Italia a due velocità, dove alcune aree vengono considerate sacrificabili, in nome di una razionalizzazione funzionale e priva di visione.

Ma in fondo allo Stivale, là dove la storia parla una lingua prossima al greco antico, e la terra sa di mare e di roccia, qualcuno rifiuta il destino scritto da altri. Nella Calabria grecanica – un pezzo d’Europa sopravvissuto ai secoli – non si celebra la morte dei borghi, bensì si lavora alla loro rinascita. Ed è una rinascita fatta di azioni quotidiane, cultura, identità, fatica. Lontana dalle passerelle, dai proclami e dai riflettori.

«Non è nostro compito resuscitare i morti. Il nostro lavoro è tenere vivi i vivi» afferma con forza ai nostri microfoni in un’intervista esclusiva Nino Spirlì, commissario della Fondazione dei Greci di Calabria e già Presidente della Regione. Parole che non sono un esercizio retorico, e che vogliono essere una risposta concreta all’idea che il Sud debba rassegnarsi. «Questi non sono territori morti da celebrare. Sono comunità vive che vanno aiutate a continuare a vivere e, soprattutto, a prosperare».

È una presa di posizione forte, che punta a rovesciare la prospettiva “museale” con cui troppo spesso si guarda alle minoranze linguistiche e culturali, trasformandole in risorse per l’oggi, anziché metterle sotto teca come dei fossili. La Grecìa di Calabria - con i suoi borghi, i suoi suoni, la sua lingua e la sua memoria - non chiede tutela, ma riconoscimento. Non cerca pietà, ma strumenti per rimanere protagonista del proprio futuro.

Nella visione di Spirlì e della Fondazione da lui guidata, la cultura Grecanica non è un’eredità chiusa in una teca, ma un’identità pulsante da condividere e rigenerare. Il patrimonio di questi territori viene raccolto, digitalizzato e narrato per essere restituito tanto alle comunità locali quanto al mondo.
La sopravvivenza passa attraverso la trasmissione, la narrazione e la connessione con chi vuole conoscere e riconoscersi in questi luoghi. La Regione Calabria su questo fronte, racconta Spirlì, ha avviato una nuova stagione: al centro non c’è più solo la tutela linguistica, ma un progetto culturale integrato, capace di generare turismo, economia, occupazione e senso. «Oggi si deve puntare alla cultura come impresa viva. Servono lavoro, progettualità e strumenti per trattenere chi ama questi luoghi e vuole costruirci un futuro».

In un contesto segnato dallo spopolamento, questi borghi dimostrano che il destino si può ribaltare. A patto che si creda in loro, non come reliquie, ma come territori generativi, capaci di attrarre, formare e restituire. Non servono mausolei né celebrazioni da cartolina per tenere in vita le comunità. Serve una presenza viva, orgogliosa e utile, che sappia parlare alle persone prima ancora che ai progetti.

«Questi territori non sono morti da celebrare, ma vivi da rafforzare» afferma Spirlì, marcando una distanza netta dalle logiche rassegnate contenute nel Piano nazionale per le aree interne. Dove lo Stato parla di “accompagnare con dignità” il declino dei borghi, la Fondazione propone invece un contro-racconto basato sull’identità, sull’attrattività culturale e sulla vitalità sociale.

Per Spirlì, la grecanicità non è una reliquia folcloristica né un’etichetta turistica, ma un patrimonio vivo, fatto di suoni, linguaggi, relazioni, memorie e prospettive. Ed è da lì che bisogna ripartire, «occupando un posto reale nella società contemporanea, senza farsi sostituire o marginalizzare». Perché ripopolare non significa semplicemente riempire i vuoti, ma rigenerare comunità capaci di sostenersi, aprirsi e restare se stesse. Una sfida culturale, certo, ma anche strategica. E, forse, l’unica vera alternativa alla dissolvenza lenta dei borghi calabresi.

Eppure, ogni strategia culturale rischia di restare incompiuta se non si innesta in una visione più ampia, condivisa e strutturale. Spirlì lo sa bene: non basta raccontare i territori, bisogna renderli abitabili, accessibili, desiderabili. E per farlo serve una politica che smetta di guardare ai borghi come a problemi da amministrare, e inizi a considerarli risorse su cui investire.

È qui che la Fondazione Greci di Calabria si propone come ponte tra memoria e sviluppo, tra comunità locali e istituzioni, tra linguaggio identitario e nuove economie. Non una voce solitaria, ma un attore in grado di allearsi con chi vuole davvero invertire la rotta. Il rischio, semmai, è che le parole si perdano nel vuoto, come già accaduto troppe volte.

La Regione Calabria ha promesso una nuova fase di programmazione strategica, meno museale e più “imprenditoriale”, capace di generare occupazione e crescita nei piccoli centri. Ma quella svolta dovrà essere reale, non solo nominale. Perché il tempo delle narrazioni consolatorie è finito. O si cambia passo, oppure si continua ad accompagnare con formule eleganti una lenta sparizione che nessuno ha il coraggio di fermare. In questa battaglia di civiltà, la Fondazione si schiera senza ambiguità: contro ogni eutanasia culturale e istituzionale, per una restanza che non sia più vista come ostinazione, ma come scelta strategica per l’Italia intera.

«Questi borghi – afferma – hanno suoni che altri non hanno. La lingua greca, la grecanica, sono musiche uniche che ci legano alla nostra storia e che dobbiamo trasmettere, non imbalsamare». È un linguaggio che non chiede solo tutela, ma diritti culturali, politiche educative, strumenti per continuare ad esistere nel tempo.

La rinascita passa anche da qui: dal rifiuto di essere un museo a cielo aperto. L’idea è quella di costruire presìdi attivi di cultura, che diventino motori civili, occasioni di formazione, luoghi in cui le giovani generazioni possano ritrovare un’appartenenza senza rinunciare al mondo.

Perché è questo il punto: l’Area Grecanica non è un recinto, è una chiave di lettura del presente. E se davvero lo Stato si convincerà ad evitare la fine dei borghi anziché accompagnarli alla morte, dovrà iniziare ad ascoltare chi – in queste terre – la fine la combatte ogni giorno.