Dove non arrivano gli accordi, arrivano i papocchi: il centrodestra litiga su tutto, da chi va al Viminale a chi deve “sacrificarsi” in Campania. Intanto la premier gioca a domino col destino di Zaia. E il ministro guarda storto
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Se il buongiorno si vede dal buongoverno, il centrodestra si è svegliato con la luna storta. Soprattutto sul fronte Regionali, dove la mappa elettorale si è trasformata in un gioco dell’oca a spirale, senza una vera casella d’arrivo. L’ultimo colpo di scena? Luca Zaia, il governatore più amato del Nordest (soprattutto da se stesso), che non potrà ricandidarsi in Veneto, causa limiti di mandato, e ora – udite udite – potrebbe finire al Viminale. Già, proprio lì. Dove sogna di tornare Matteo Salvini, che nel frattempo mastica amaro come un chewing gum al peperoncino.
Per evitare che Zaia sbatta la porta e si porti via anche le chiavi della simpatia popolare, Giorgia Meloni pare abbia offerto una poltrona ministeriale al Doge di Pieve di Soligo. E mica una qualunque: quella dell’Interno, oggi occupata da Matteo Piantedosi. Il problema? Piantedosi non sembra aver alcuna voglia di sloggiare. A meno che, dicono le voci, non venga spedito a correre per la Regione Campania. Lì però si è già piazzato Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri, ex colonnello di AN e grande fan della sintassi militarizzata.
Morale: se Zaia sale al Viminale, Piantedosi deve correre in Campania. Ma per farlo, bisogna convincere Cirielli a farsi da parte. Un domino impazzito dove ogni pedina poggia su un’altra e dove, manco a dirlo, Salvini resta l’ultimo a sapere tutto. O meglio: finge di non sapere mentre prepara la controffensiva.
Perché se il Veneto resta alla Lega, due nomi circolano insistenti: Alberto Stefani, giovane ma già vice di Salvini nel partito, e Marco Conte, sindaco di Treviso, uno di quelli che al Nord sanno parlare la lingua del campanile e dell’aperitivo. Stefani ha un vantaggio tattico non da poco: libererebbe il collegio uninominale di Veneto-2 alla Camera, e lì – toh! – potrebbe candidarsi proprio Zaia. Così la vendetta elettorale si servirebbe fredda, e col bollino parlamentare.
Ma nel risiko non poteva mancare il solito outsider di Forza Italia: Flavio Tosi, già sindaco di Verona, ora europarlamentare, ancora in cerca di una carica qualsiasi purché venga chiamata “governatore”. «La trattativa deve ancora iniziare», dice lui a Repubblica, come se fosse l’unico sobrio nella festa a base di prosecco e ambizioni che è la destra italiana. Solo che, al tavolo delle trattative, Forza Italia non alza più la voce da mesi. Antonio Tajani, impegnato a contare quanti ministri gli sono rimasti, ha ben altri grattacapi.
E mentre si tratta (si fa per dire), spunta anche un altro nome: Raffaele Speranzon, fedelissimo di Giovanbattista Fazzolari (l’uomo che sussurra ai decreti). Speranzon è di Fratelli d’Italia, è veneto e ha una biografia che fa contenti tutti: ex An, ex Msi, ex tutto. E soprattutto è in pole per portare a casa un’altra bandierina meloniana.
Nel frattempo, i contorni della trattativa sembrano quelli di una partita a Risiko giocata con le regole del Monopoli e il cinismo di House of Cards. Ogni movimento serve a incastrare l’altro: il Veneto serve a decidere il destino del Viminale, la Campania è il pegno da pagare per spostare Piantedosi, e Milano – perché no – è il sogno proibito di Maurizio Lupi, che vorrebbe candidarsi a sindaco con il sostegno della metà buona di FdI. Solo che, per ora, gli unici a sostenerlo sono i santi sul calendario.
E mentre Meloni si muove con la destrezza di una regina degli scacchi, Salvini rosicchia l’elenco dei suoi alleati, uno dopo l’altro. Perché Zaia, pur restando leghista, è ormai un satellite orbitante nella galassia meloniana. E perché se davvero dovesse finire al Viminale, la Lega dovrebbe ingoiarsi anche l’ultimo sogno di rivincita del suo segretario.
In tutto questo, il tavolo del centrodestra – che dovrebbe riunirsi di nuovo a Palazzo Chigi – rischia di diventare una riunione di condominio tra vicini che si odiano cordialmente. Ognuno con il suo candidato in tasca, ognuno convinto di essere il più furbo. Ma alla fine, come sempre, deciderà Giorgia. Con una pacca sulla spalla e un mezzo sorriso.
E Salvini? Per ora abbaia, ma non morde. Al massimo sussurra: «Una come Giorgia può anche permettersi di scegliere. Io, intanto, torno a fare campagna. A Pontida. Tra i miei». Che è un po’ come dire: “Io ci sono, ma se continuo a perdere pezzi, mi ritrovo a giocare a Risiko con le pedine della Dama”.