Da M5s a “partito”, Di Maio cerca di far digerire la svolta di Cosenza

I facilitatori regionali, provinciali e comunali annunciati dal capo politico del Movimento nel corso dell’assemblea calabrese assomigliano molto ai classici coordinatori e segretari locali. È stato lo stesso vicepremier a parlare di “ipocrisia di fondo” da spazzare via

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di Enrico De Girolamo
2 agosto 2019
14:53
Luigi Di Maio
Luigi Di Maio

Dall’uno vale uno degli albori, al «movimento più verticistico del mondo». Ha detto proprio così così Luigi Di Maio, capo politico del Cinquestelle, che domenica scorsa a Cosenza ha incontrato circa 500 iscritti in una lunga riunione a porte chiuse durata sei ore. Un incontro balzato agli onori delle cronache per l’audio segreto carpito dalla nostra testata e rilanciato dalla stampa nazionale. Clamore che però ha messo un po’ in ombra i contenuti solo apparentemente secondari di quella riunione, servita anche a sollevare il velo su questioni che ormai da tempo animano un aspro dibattito interno al M5s. Da una parte i duri e puri, che ritengono un’onta qualunque compromesso in nome della governabilità; dall’altra quelli che invece pensano che il movimento debba essere più pragmatico se non vuole rischiare di passare come una vecchia moda.

 


Nel definirlo come il più verticistico del mondo, Di Maio ha voluto rimarcare che non è più procrastinabile una riorganizzazione che assomigli alla struttura di un partito tradizionale, con articolazioni territoriali e figure di coordinamento che oggi non ci sono. «Se le cose non funzionano - ha detto il vicepremier -, la colpa è di una ipocrisia di fondo che ci portiamo appresso, quella che ci ha impedito di darci all’inizio uno statuto e regole precise».
Il problema è che questa presa di coscienza avviene ancora attraverso eufemismi e giri di parole che quella ipocrisia di fondo rischiano di alimentarla ulteriormente.
Così, i Cinquestelle continueranno a fregiarsi di essere un “movimento” per rimarcare l’autenticità della spinta popolare che alimenta il suo motore, ma in realtà - sebbene non abbiano alcuna voglia di dirlo in maniera esplicita - sanno che per essere più competitivi sulla scena politica italiana devo assomigliare sempre di più a un partito, che abbia struttura e organizzazione, organigrammi e settori di competenza.

 

Lo ho confermato indirettamente lo stesso Di Maio, quando ha illustrato le nuove figure dei “facilitatori regionali”, che avranno il compito di fare da collante tra i livelli romani e i territori, affinché il movimento parli con una sola voce, ma soprattutto segua pedissequamente gli orientamenti della “segreteria” (altro termine ovviamente bannato dai pentastellati). Dalla descrizione che ne ha fatto il capo politico del Movimento, il loro ruolo sembra ricalcare quello che, per partiti tradizionali, viene svolto dai coordinatori e dai segretari regionali. Tanto più che Di Maio ha spiegato che sono già allo studio anche i facilitatori comunali e provinciali, con la stessa progressione gerarchica che si può riscontrare nell’organizzazione nelle forze politiche tradizionali, da Pd a Forza Italia, dalla Lega a Fdi.

 

Il vicepremier ha frenato solo sulla possibilità immediata che il Movimento cominci a finanziare le iniziative organizzate sul territorio, ma non perché si sia opposto in linea di principio a questa ipotesi (le richieste di sostegno economico che arrivano dai militanti sono tante e continue), quanto piuttosto proprio per la mancanza attuale di organizzazione. «A chi mi chiede perché non apriamo sedi locali e non finanziamo le iniziative sul territorio - ha detto Di Maio -, rispondo che arriverà il tempo anche per queste cose. Ci sono cose che si fanno a 10 anni e cose che si possono fare a 20, noi ne abbiamo 10. Se oggi finanziassimo le iniziative locali, con la scarsa organizzazione che abbiamo finirebbe male, perché attireremmo quelli interessati solo ai soldi». Insomma, un passo alla volta.

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