Quando i dolci di Pasqua venivano cotti in forni comuni… e marchiati

In Calabria fino agli anni ’80 molte famiglie usavano i panifici di quartiere per la realizzazione delle pietanze tradizionali da consumare nei giorni di festa. Ma non sempre le cose andavano per il verso giusto

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di Rocco Greco
20 aprile 2019
18:02

Sino agli anni ’70 e ‘80 del secolo scorso, ed anche oltre, a Pizzo, come nel resto della Calabria, i dolci della tradizione, preparati per le festività solenni, venivano cotti nei forni delle pasticcerie e dei panifici cittadini. All’origine ciò avveniva perché le famiglie che avevano il forno in casa erano poche, ma anche quando la modernità aveva già fatto il suo ingresso nelle abitazioni, con le prime cucine a gas e poi elettriche, l’usanza continuò ad essere praticata, quasi fosse anche questa una tradizione. Ovviamente, la motivazione più razionale veniva attribuita ad un minore dispendio, considerata la quantità cospicua che se ne produceva.


Perciò nell’approssimarsi delle feste comandate, Natale e Pasqua, per le vie del paese si vedevano frotte di ragazzini e donne con tavole e “liande” in equilibrio sopra la testa e sotto il braccio che portavano “mustazzòli cu’ ‘a nnaspru e cambanàri cu’ l’ova, pittìpìi cu’ ‘a pàssula”, pastieri di ricotta, ma anche teglie di pasta al forno, pitti lordi, agnelli e capretti, a cuocere nei panifici e nelle pasticcerie del paese. Come si può osservare, tra i citati dolciumi non figurano panettoni e pandori, colombe pasquali e simili: poiché non fanno parte della tradizione locale non comparivano sulle tavole dei calabresi.
Per lo più, ogni quartiere o strada aveva il suo forno dove infornare i propri manicaretti e in quei giorni nei forni del paese vi era un gran fermento e in quella confusione di “burna e spurna”, sapete com’è? nella calca poteva succedere che qualche mano lesta “cu ‘na mastra vota, scangiàva” le proprie con quelle di altre oppure che qualche “lianda” prendesse il largo per lidi sconosciuti. E, per riconoscersele e non confonderle con le altre, “si signàva” ognuna con un segno distintivo.


 

Per queste cose era maìstra riconosciuta ‘Ngiulina ‘a Fùrgula e perciò tutte la tenevano sutt’occhju. Quando c’era lei bisognava stare all’erta, nessuno si poteva distrarre, altrimenti u “cangia e scangia” era questione di un attimo, e poi “va pigghja pista cchiù”! Non era cosa rara che per questo accadessero “mingriji”.
Donna Tresìna ‘a Curiùsa aveva imparato a proprie spese a fare con il coltello una piccola ‘ndacca a un lato della mustazzòla, un piccolo segno come una “V”, dopo che, un anno, al forno di Minna Jànga, mentre preparava ‘a nnaspru (i janghi d’ova sbattuti con lo zucchero ed il succo di limone) si era girata un solo istante per chiedere all’amica vicina se avesse terminato di adoperare le penne di gallina legate a mo’ di pennello per spennellare ‘a nnaspru sulle sue mustazzòli.
È stata questione di un attimo, pari ca passàu ‘nu fùrgulu! Oh malapasca, comu fìciaru e comu no’ ficiaru, ngi grattàru ‘nu cambanàru cu’ quattr’ova sutt’a l’occhj!
Donna Tresìna, ch’era perzuna bona, c’havìa a vucca e no’ havìa ‘a parola, pô quetu vìvari agghjuttìu e no’ dissi nendi, però credette che con quel segno si sarebbe messa al riparo da altri eventuali spiacevoli inconvenienti.

Giornalista
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