La sanità in Calabria è un disastro. Ma i servizi sociali comunali sono pure peggio

INTERVISTA | Il docente e ricercatore Unical Giorgio Marcello è una voce importante del Terzo settore. La sua analisi è impietosa: mentre a Bolzano la spesa dell’assistenza per le fasce deboli è di 517 euro procapite, a Vibo è di appena 8 euro per cittadino, con una media regionale che non supera i 22 euro. La prima causa di questa débâcle è una classe politica incapace che usa il comparto della salute pubblica per alimentare se stessa   

di Monica La Torre
9 febbraio 2019
18:09

Dovremmo esserci abituati, alle sirene di allarme. Agli scenari a tinte fosche. Alla nonchalance con la quale il pressappochismo tragico di burocrazie predatorie, divide et impera, distribuisce e toglie, Al familismo amorale ed alle consorterie assurti a rango di categoria dell’assoluto, con buona pace dell’interesse del cittadino. E invece, ogni volta, è amarezza e rammarico, nel constatare come le parodie di governo del territorio in scena da Cosenza a Reggio proseguano indefesse, nel disinteresse sistemico degli interessi della comunità. Una sordità che in ambito sociale e sanitario è ancora più cruda, e difficile da digerire.

La voce del terzo settore

Giorgio Marcello, ricercatore di Sociologia generale all’Unical di Cosenza, dipartimento di Scienze politiche e sociali, è un esponente del terzo settore in Calabria. In qualità di docente, e di punto di riferimento di una rete di associazioni di impegno civile e sociale, denuncia le condizioni di una sanità pubblica al collasso, tra le più care e inefficienti d’Italia. Esempi concreti, responsabilità e scenari futuri, con un focus sullo stato dell’arte del mondo della solidarietà organizzata. Perché se Atene piange, Sparta non ride.


 

Cosa sta succedendo in Calabria?

Dieci anni di commissariamento hanno portato come unico effetto la crescita esponenziale dei costi sanitari. I tagli lineari prodotti, hanno abbassato il livello di prestazioni e servizi, provocando un peggioramento della qualità della vita, soprattutto delle persone più fragili, e la lievitazione delle spese. Oggi la Calabria ha il saldo passivo più pesante d’Italia. È la prima regione per migrazione sanitaria. Uno degli apporti più significativi al bilancio della sanità lombarda viene dalla nostra sanità, che paga il rimborso delle prestazioni erogate a beneficio dei calabresi.
Inoltre, la nostra è l’unica regione in Italia che non ha provveduto ad attuare la legge 328 del 2000, quella per intenderci sull’integrazione socio-sanitaria. In sostanza, a livello regionale, il dipartimento della Sanità e quello delle politiche sociali non comunicano tra loro. Ed anche se si parlassero, si direbbero poco. Solo il 10% dei comuni calabresi, forse anche meno, ha un servizio sociale attivo. Se in Trentino la spesa sociale pro capite è di 380 euro (517 nella provincia autonoma di Bolzano), in Calabria è di 22 euro (con una forbice che va dagli 8 euro di Vibo Valentia, ai 33 di Cosenza, ndr). Basti pensare che a Crotone, città di 70 mila persone, sono in servizio solo due assistenti sociali, laddove ce ne vorrebbe uno ogni 5 mila abitanti. Da un lato, sanità ipertrofica ed inefficiente. Dall’altro, un settore dei servizi sociale meno che rachitico.

 

A chi attribuire le responsabilità?

C’è un tappo strutturale, creato per l’ingerenza politica nella gestione della sanità. Anche con le esigue risorse a disposizione, si potrebbero attivare delle buone pratiche, migliorare i servizi. Basterebbe volerlo fare: adottare pratiche virtuose, che altre regioni hanno messo in atto da decenni. Ma non c’è alcun interesse. Stiamo parlando di un terreno paludoso: noi siamo una regione in cui il welfare si presenta inequivocabilmente particolaristico. La politica, da destra a sinistra, senza eccezioni, utilizza le risorse della sanità per alimentare sé stessa. Lo scambio clientelare sembra essere il criterio prevalente di gestione

 

Un esempio concreto?

Noi siamo una regione dove manca del tutto la filiera riabilitativa per la salute mentale. Se la famiglia non riesce a gestire da sola la persona, l’unica alternativa è rappresentata da residenze di contenimento, che hanno caratteristiche puramente custodialistiche. Tutte, operano in regime di convenzione. Sono contenitori segreganti, privi di attività riabilitative apprezzabili, con costi altissimi. Le rette comportano una spesa pubblica di migliaia di euro al mese per paziente. L’efficacia, è scarsa. Gli interessi privati, sono conclamati. Nelle altre regioni si sono messi a punto dei percorsi di salute non standardizzati, ma incentrati sui pazienti. Accompagnano il reinserimento nella società differenziando, a seconda dell’individuo, l’iter riabilitativo. Forniscono il territorio di strutture e servizi non segreganti. C’è integrazione, recupero, efficacia. E inoltre, gli studi econometrici effettuati in tutti questi anni, dimostrano che l’adozione di questi modelli alternativi permette un abbattimento dei costi pari al 50%, rispetto alle politiche di segregazione. Tuttavia, nessuno si è mai adoperato per attivare questi percorsi.

 

Come mai questa sordità?

Per la saldatura degli interessi politici e privati, nella gestione delle strutture beneficiarie di questi fondi. Stiamo parlando di cifre consistenti. Che in futuro, sono destinate a crescere, perché in Calabria la domanda di assistenza in questo ambito sale ogni anno di più. Difficile non ipotizzare la collusione degli interessi in gioco, che probabilmente ha attirato l’attenzione del mondo della criminalità organizzata.

 

Con queste premesse, cosa ci riserva il medio termine?

Non ci sono previsioni confortanti. La politica attuale sta impostando un welfare sempre più regressivo. Chi va in pensione, nei servizi, non viene sostituito. Una carenza che, nell’ambito del servizio di psichiatria del territorio, sta assumendo i contorni di un vero e proprio dramma. E questo, a fronte di una richiesta di assistenza nel settore della salute mentale che cresce ogni giorno di più.

 

Lei è una delle voci più ascoltate, nel terzo settore regionale e nazionale. Come vede la risposta del volontariato?

In generale posso dire che la fragilità è contagiosa. Si trasmette dalle istituzioni alle associazioni. Quando le istituzioni pubbliche non funzionano, e le infrastrutture sociali del territorio sono deboli, la fragilità delle interazioni si riverbera anche nel mondo della solidarietà organizzata. Se il pubblico funziona male, anche il volontariato ne risente, e funziona male, a parte quei pochi, sporadici fenomeni locali, circoscritti, legati al protagonismo di singole organizzazioni.

 

E il mondo cattolico?

Anche nell’associazionismo cattolico, i gruppi sono frammenti. Realtà singolarmente interessanti, ma con poca capacità di fare rete, in un contesto regionale profondamente lacerato. Paradossalmente, dove funzionano meglio le istituzioni, funziona meglio anche il volontariato. La realtà sociale poggia su grandi regolatori. La politica, la famiglia, l’economia, la Chiesa, il volontariato. Oggi, viviamo in un’epoca di grande crisi, che compromette contemporaneamente la forza di tutti questi regolatori: e vista la fragilità strutturale del sistema, in Calabria è molto più visibile che altrove. Pertanto, il nostro terzo settore è più debole, e più adattivo. Risente prima, più pesantemente, dei mali della pubblica amministrazione.

 

Giornalista
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