Prima del 1978 l’assistenza sanitaria era legata alle mutue di categoria. Oggi è un diritto universale, ma il decentramento ha aumentato costi e diseguaglianze. Il sistema reggerà ancora a lungo?
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Corsie ospedali (Foto Ansa)
Prima che le Regioni prendessero il timone della sanità italiana, com’era organizzata l’assistenza ai cittadini? Quali erano le funzioni sul territorio, chi erano gli operatori e dove ci si rivolgeva per una visita o una cura? E perché, con il decentramento, il sistema è diventato più costoso e spesso più diseguale?
Per rispondere, dobbiamo fare un salto nel tempo. A prima del 1978. A un’Italia che si stava urbanizzando, ma dove la medicina restava legata a strutture centralizzate, a una logica assicurativa di categoria e, per molti, ancora al medico condotto.
Un sistema mutualistico, parziale e centralizzato
Prima della nascita del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), l’assistenza sanitaria in Italia era regolata da un sistema mutualistico e contributivo. Ogni categoria di lavoratori era iscritta a una mutua: l’INAM (per gli operai), l’ENPAS (per i dipendenti pubblici), l’INAIL (per gli infortuni sul lavoro), e molte altre. Chi non lavorava – casalinghe, disoccupati, anziani non pensionati – spesso non aveva alcuna copertura.
Le mutue stipulavano convenzioni dirette con medici e ospedali, pubblici e privati, decidendo rimborsi, tariffe, prestazioni. Il cittadino aveva accesso ai servizi solo se iscritto a una cassa, e l’assistenza non era affatto uniforme. Le prestazioni differivano per qualità e quantità, a seconda della categoria sociale. Di fatto, la sanità non era un diritto universale, ma un privilegio lavorativo.
Gli ospedali erano gestiti da enti morali, congregazioni religiose, comuni o province. Ogni realtà locale aveva una propria struttura, con autonomia gestionale. La supervisione spettava al Ministero della Sanità, istituito nel 1958, ma privo di reali poteri di intervento diretto. Il sistema era accumulativo e frammentato: enti ospedalieri, enti mutualistici, enti locali, ciascuno con proprie competenze e risorse.
Sul territorio esistevano gli sportelli delle mutue, dove i cittadini si recavano per le pratiche di autorizzazione, per ricevere libretti e buoni, o per scegliere il medico. In molte zone rurali, il primo (e spesso unico) riferimento era il medico condotto: una figura ibrida tra assistente sanitario e autorità locale, stipendiato dal comune e reperibile a tutte le ore.
Gli operatori sanitari lavoravano in una situazione variegata: i medici convenzionati con le mutue operavano spesso in studi privati, ricevendo un compenso per prestazione; i medici ospedalieri, invece, erano impiegati pubblici. Gli infermieri non avevano un albo e spesso erano formati da istituti religiosi o scuole locali, con standard disomogenei.
Il grande cambio: nasce il Servizio Sanitario Nazionale
La riforma arriva nel 1978, con la Legge 833, che istituisce il SSN, ispirato al modello britannico del NHS: gratuità, universalità e uguaglianza di accesso. Tutti i cittadini, non più solo i lavoratori, hanno diritto alla cura. Il sistema non è più fondato sui contributi, ma finanziato dalla fiscalità generale.
La grande novità: la gestione viene decentrata alle Regioni, che nel 1970 erano state appena attivate e ora diventano protagoniste. Nascono le Unità Sanitarie Locali (USL), che coprono un determinato territorio e rispondono alla Regione. Viene istituito il medico di base per tutti. I cittadini non devono più scegliere tra mutue, ma hanno una tessera sanitaria unica.
Con l’universalità delle cure e l’allargamento dei diritti, crescono anche la domanda di prestazioni e i costi del sistema. Le Regioni, responsabili della programmazione e della spesa sanitaria, iniziano a differenziarsi. Alcune investono in prevenzione, digitalizzazione, ospedali efficienti. Altre accumulano ritardi, inefficienze, e soprattutto debiti.
Secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato, il debito sanitario aggregato delle Regioni supera oggi i 40 miliardi di euro. Le cause sono molteplici:
• Assunzioni fuori controllo e clientelismo;
• Spesa farmaceutica fuori budget;
• Mancato rispetto dei livelli essenziali di assistenza (LEA);
• Privatizzazioni poco regolate, con rimborsi pubblici ad alto costo.
Nel tempo, si è passati a un sistema di “aziendalizzazione” della sanità: le USL diventano ASL, guidate da manager nominati dalla politica. La Regione decide budget, tagli, piani di rientro. Ma le disuguaglianze territoriali si ampliano: nel Nord servizi più rapidi e efficienti, nel Sud carenze croniche, migrazione sanitaria, ospedali chiusi.
Il Covid-19 ha fatto da stress test. Mentre alcune Regioni reggevano l’urto, altre andavano in crisi. La mancanza di una regia nazionale forte, la disparità tra territori, l’assenza di un sistema unico per i dati sanitari hanno creato confusione e disorganizzazione. L’idea di “riaccentramento” è tornata nei discorsi politici, ma senza ancora trovare concretezza.
Oggi la sanità italiana è un diritto garantito a tutti, ma la sua sostenibilità economica è in bilico. Il debito accumulato, la carenza di personale sanitario, la fuga di medici verso il privato e le liste d’attesa interminabili pongono interrogativi cruciali. Ogni Regione gestisce in proprio: 20 sistemi sanitari diversi, in un Paese dove la Costituzione garantisce uguaglianza nei diritti.
Prima delle Regioni, la sanità era più rigida, meno inclusiva, ma più controllata. Dopo, è diventata più giusta, ma anche più fragile. L’esplosione del debito è il prezzo pagato per l’estensione dei diritti, ma senza una visione nazionale coerente e una governance chiara, il sistema rischia di collassare.
L’Italia ha fatto una scelta giusta, ma incompiuta. Oggi serve il coraggio di ripensare l’equilibrio tra autonomia regionale e unità nazionale, tra diritto alla salute e sostenibilità del sistema. Inizia oggi il nostro viaggio nel sistema sanitario nazionale con i suoi mutamenti, le sue fragilità e diseguaglianze.