Un artista che ha superato diverse stagioni musicali non perdendo mai la sua originalità artistica e poetica. Dai primi anni ‘70 a oggi il cantante romano continua a essere un eterno artigiano del sentimento, un architetto del suono capace di trasformare il tempo in musica, e la musica in vita
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Claudio Baglioni
A quarant’anni dalla pubblicazione di “La vita è adesso” (1985), l’album italiano più venduto di sempre, Claudio Baglioni si staglia nel panorama della musica d’autore come una figura ormai trascesa dal tempo, una sorta di classico della canzone, mai scontato, il cui linguaggio poetico e musicale continua a rivelarsi proteiforme, capace di incarnare, di volta in volta, l’ardore giovanile, la malinconia del tempo perduto e la sapienza dell’età matura.
La sua carriera, iniziata nei primi anni Settanta, è una lunga e ininterrotta sinfonia di trasformazioni: un arco melodico che, come nella grande musica sinfonica, attraversa andanti lirici, crescendo orchestrali e improvvisi adagi d’anima, in cui la voce del cantautore si fa strumento di confessione e, al tempo stesso, di rappresentazione collettiva
Baglioni esordisce discograficamente nel 1970, ma è con “Questo piccolo grande amore” (1972) che la sua parabola comincia davvero a brillare. L’omonimo brano — definito da molti “la canzone italiana del secolo” — diventa manifesto di una generazione che riscopre, nella tenerezza dell’amore giovanile, il suo modo più puro di abitare il mondo. La struttura melodica, con un uso sapiente della modulazione e del rubato vocale, accompagna un testo che è racconto e sogno insieme:
“E lunghe corse affannate/
Incontro a stelle cadute/
E mani sempre più ansiose di cose proibite…”
È una poetica dell’infinito domestico, una melopea sentimentale in cui la quotidianità si fa epopea. A questo periodo appartengono anche "E tu" (1974) e "Sabato pomeriggio" (1975), brani che segnano il consolidarsi di un linguaggio personale, fondato su una musicalità di matrice armonica, raffinata, quasi cameristica, ma capace di un’immediatezza popolare senza precedenti. "E tu", con la sua linea melodica ascendente e la tensione armonica che culmina nell’inciso, è il canto di un amore assoluto, quasi mistico, mentre "Sabato pomeriggio" celebra il languore delle ore vuote, l’attesa, il sospeso emotivo:
“Ma cosa è stato di un amore/
Che asciugava il mare/
Che voleva vivere, volare/
Che toglieva il fiato/
Ed è ferito ormai…”
anticipando quella poetica dell’istante impossibile che diverrà cifra costante della sua scrittura.
Con "E tu come stai?" (1978) Baglioni inaugura un periodo di introspezione più profonda. Il brano che dà titolo all’album è una conversazione interrotta, un dialogo mai realmente concluso con un passato che ritorna sotto forma di eco emotiva. In esso, il cantautore disegna con pochi tratti una geografia dei sentimenti: “E tu come stai?”. L’arrangiamento, con il suo progressivo crescendo e il ricorso a un’orchestrazione superba, si apre come un mare che, pur calmo in superficie, nasconde abissi di memoria. È una canzone che racconta l’assenza, ma anche la resilienza dell’anima. Di questo brano, decise di farne una straordinaria versione Mina. La quale ha restituito, dopo qualche tempo, dignità fortemente fragile alla musica di Baglioni.
Nello stesso periodo appare "Con tutto l’amore che posso" (1973), una gemma meno celebrata ma di limpida bellezza. In questo brano, Baglioni abbandona ogni slancio epico per rifugiarsi nel cantabile intimo: una melodia lenta, quasi sospesa, dove il ritmo suggerisce un moto oscillante tra speranza e disillusione. Il testo è una preghiera laica, in cui l’amore diventa forza salvifica:
“Amore mio/
Ma che gli hai fatto tu a quest'aria che respiro/
E come fai a starmi dentro ogni pensiero/
Giuralo ancora che tu esisti per davvero…”
È la dichiarazione di un uomo, profondamente innamorato, terrorizzato dall'idea di perdere il suo amore e, pur consapevole della caducità del sentimento, sceglie di offrirsi interamente, come se cantare fosse un atto di fede.
Ma la peculiarità di Baglioni è quella di rimanere nonostante gli anni che passano, con la sua originalità artistica e poetica. Ne è testimone un brano straordinario, una vera perla, centrale nella poetica baglioniana, del 2003: "Tutto in abbraccio". Si tratta di una ballata dal respiro quasi sinfonico, con uno sviluppo armonico lontano dalla canzonetta pop. Il testo è di rara profondità e rara bellezza:
“E la canzone degli amori infelici/
L'ultima occasione per attori e attrici…”.
E poi ancora, l’amore si fa totalità, principio cosmico, esperienza di fusione con l’altro e con il creato, ma soprattutto eternanza dell'impossibile:
"Non sapremo mai quel che saremmo stati..."
La canzone sembra voler abbracciare — nel senso letterale e spirituale — la totalità dell’esistenza, traducendo in suono l’idea sentimentale di un universo in armonia e, a volte, in disarmonia.
Però è il 1985 a segnare il vertice della parabola baglioniana. "La vita è adesso" non è soltanto un album, ma un poema sinfonico per voce e orchestra elettronica, un affresco monumentale in cui la canzone pop si fonde con l’epica moderna. Le strutture armoniche si ampliano, il fraseggio vocale si fa più teatrale, la scrittura lirica raggiunge vertici di complessità che sfiorano la prosa poetica. Brani come “Uomini persi”, “Un nuovo giorno o un giorno nuovo” e “Notte di note, note di notte” esplorano la condizione umana con una profondità quasi filosofica. “La vita è adesso”, con il suo incipit luminoso, celebra il presente come unica dimensione autentica dell’essere: è un inno all’attimo, alla consapevolezza, al “qui e ora” come atto di resistenza contro l’oblio.
L’album è un capolavoro di equilibrio tra emozione e architettura musicale: l’uso del leitmotiv orchestrale, le dinamiche ascendenti, le poliritmie leggere ma complesse, l’interplay tra strumenti acustici e sintetizzatori, tutto contribuisce a creare un universo sonoro denso, stratificato, quasi cinematografico. È, in un certo senso, il concept album della maturità: Baglioni non canta più soltanto la vita, ma la vita come idea, come destino.
Il Baglioni odierno si presenta come un artista che ha sublimato la melodia in meditazione. Il suo canto è meno giovanile, ma più pieno, più legato, quasi un recitativo lirico dove ogni sillaba è scolpita nel tempo. La voce, che un tempo si slanciava in acuti solari, ora scava nei registri sabbiosi, accarezza le note con un vibrato più lento, consapevole della propria fragilità. Baglioni non rincorre più l’eternità: la abita, la contempla, la accoglie come parte di sé.
Claudio Baglioni, a quarant’anni da La vita è adesso, appare come un artista che ha saputo attraversare le epoche senza mai perdere la sua intonazione originaria. La sua musica è una continua modulazione dell’esistenza, una sinfonia di stati d’animo, un’arte che ha saputo trasformare la canzone in letteratura sonora. In lui convivono la grazia melodica del cantautore e la profondità dell’artista totale, colui che intende la musica non come ornamento, ma come forma del pensiero.
E così, mentre la sua voce si fa più velata e i suoi versi più essenziali, resta intatto quel miracolo di autenticità che lo rende — oggi come ieri — un eterno artigiano del sentimento, un architetto del suono capace di trasformare il tempo in musica, e la musica in vita. Perché, in fondo, come ci ha insegnato lui stesso, la vita è adesso. E, nel suo canto, continua a esserlo.

