«La Chindamo aveva ricevuto messaggi intimidatori. Facevano entrare le pecore nei suoi terreni per farle dei danni. Ma lei era una tosta, non cedeva e Diego Mancuso reagiva male al rifiuto di lei di vendere i terreni. L’appellava con parolacce la insultava…». Nel 2013 Andrea Mantella, oggi collaboratore di giustizia, era rinchiuso nel carcere di Viterbo. Insieme a lui c’era anche Diego Mancuso, esponente di spicco dell’omonimo clan di Limbadi. All’inizio i rapporti tra i due erano «tesi» perché Mantella faceva parte di un’ala ‘ndranghetista nella città di Vibo, scissionista rispetto alla centralità dei Mancuso. Il suo gruppo aveva avuto scontri in particolare nel periodo di reggenza di Pantaleone Mancuso alias Scarpuni.

Le telefonate di Diego Mancuso nelle docce del carcere

Andrea Mantella e Diego Mancuso, ha raccontato il collaboratore oggi nell’aula di Corte d’assise del Tribunale di Catanzaro, sono stati detenuti insieme per circa sette mesi, prima che Mantella venisse trasferito. I rapporti si sono distesi quando Mancuso ha lasciato intendere di non era interessato a scontri e rapporti diplomatici all’interno del sul clan. Anzi, il collaboratore ad un certo punto faceva da vedetta per Mancuso quando questi, dall’interno delle docce del carcere, la mattina impartiva ordini e riceveva notizie grazie a un cellulare detenuto abusivamente.

Maria Chindamo, una donna «tosta»

E fu proprio in seguito a una di queste telefonate che Mantella venne a conoscenza degli interessi dei Mancuso per i terreni di Maria Chindamo, l’imprenditrice di Laureana di Borrello scomparsa nel nulla il 6 maggio 2016. Una donna «tosta», dice Mantella davanti alla Corte presieduta dal giudice Alfredo Cosenza, a latere Giovanni Strangis.
«Il marito della Chindamo – racconta il collaboratore – aveva ceduto al ricatto di vendere i terreni ma lei no». C’è da precisare che Ferdinando Punturiero, ex marito di Maria Chindamo, si era suicidato nel 2015. Maria Chindamo, rimasta da sola a gestire l’azienda agricola, non aveva nessuna intenzione di cedere a quei messaggi intimidatori, manifestati attraverso le invasioni di greggi, che i Mancuso le inviavano.

Le mire dei Mancuso e di Ascone

«Ma chi era che, materialmente, liberava le pecore perché danneggiassero le colture?», chiede l’avvocato di parte civile Antonio Cozza. «Questi atti intimidatori li faceva Salvatore Ascone», risponde Mantella. Salvatore Ascone è oggi l’unico imputato nel processo per la morte di Maria Chindamo. È accusato di concorso in omicidio per aver aiutato altri, allo stato ignoti, che la mattina del sei maggio 2016 hanno prelevato l’imprenditrice proprio davanti al cancello della sua azienda per trascinarla via e farla sparire nel nulla.
Mantella racconta di aver appreso da Diego Mancuso che sui terreni della Chindamo c’erano mandarini e kiwi e che il clan era interessato ad acquisirli per usufruire poi degli incentivi all’agricoltura mentre Ascone, che avrebbe gestito le proprietà, avrebbe goduto di altri pascoli per le sue pecore.

Un sistema «asfissiante»

Quello dei Mancuso era un sistema «asfissiante», dice il pentito, per farsi consegnare le terre dai proprietari, «arrivavano anche a pretendere quote sulla raccolta delle olive».

Il giorno in cui Mantella viene a sapere degli interessi dei Mancuso per l’azienda agricola di Maria Chindamo, Diego Mancuso, dopo una delle sue telefonate nascosto nelle docce del carcere di Viterbo, avrebbe lamentato il fatto che anche Pantaleone Mancuso, alias Vetrinetta, aveva messo gli occhi sulla stessa proprietà.

Le rivelazioni nel 2020

Il pm Irene Crea ricorda al collaboratore che l’imprenditrice è scomparsa il sei maggio 2016 ma il primo verbale in cui vengono messe nero su bianco le dichiarazioni su Maria Chindamo risalgono al sei febbraio 2020. Mantella, che ha cominciato a collaborare proprio a maggio 2016, spiega che appresa la notizia, mentre si trovava in una caserma, chiese di parlare con un colonnello dei carabinieri. «Poi quando la Procura ha avuto necessità di sentirmi mi ha convocato».

Di questa risposta non si accontenta la difesa di Salvatore Ascone, l’avvocato Salvatore Staiano. Questo è un punto sul quale il legale e Mantella si sono scontrati anche in un’altra occasione. Perché fare mettere a verbale un fatto che lo stesso Mantella giudica così grave quattro anni dopo? A chi è da imputare, in sintesi, questo ritardo? A Mantella, all’Ufficio di Procura, ai carabinieri?
Mantella insiste: «Io volevo parlare con il colonnello Palmieri». Dice che in quel periodo lo sentivano costantemente per altre cose che era «impegnato con altri ricordi» e quando gli hanno chiesto di parlare ha parlato.

La credibilità di Mantella

L’avvocato Staiano punta la difesa sulla credibilità di Mantella. Fa mettere agli atti una sentenza di luglio del Tribunale di Vibo Valentia in cui Mantella, che si autoaccusava di un’estorsione, è stato assolto per non aver commesso il fatto, una sentenza della Corte d’assise di Catanzaro che nella quale si parla di inattendibilità.
Chiede anche a Mantella se ha contezza del fatto che ha un processo per calunnia instaurato nel 2019. «Ne ho tanti processi per calunnia – risponde Mantella – diversi mafiosi mi hanno denunciato».
Tra le altre cose la difesa mette agli atti anche una relazione in cui si parla di comportamenti oppositivi di Mantella nei confronti della sua scorta.

I battezzi di ‘ndrangheta a Viterbo

Le ultime domande al collaboratore spettano al presidente Alfredo Cosenza che chiede se nel peridio di detenzione a Viterbo fossero stati fatti battezzi di ‘ndrangheta insieme a Diego Mancuso. «In quel periodo – risponde il pentito – è stata conferita la dote della Santa a un certo Carmine di Sinopoli».