La pellicola

Cosenza: Gabriele Mainetti presenta “Freaks out”, il suo film girato in Calabria

VIDEO | Battesimo calabrese per il film girato tre anni fa anche in Sila. Una storia incredibile diretta con grande arte e maestria che omaggia il cinema del passato

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di Alessia Principe
5 novembre 2021
13:31

I mostri di Mainetti raccontano un sogno, masticando ironia e crudeltà e trascinando gli occhi in una meraviglia surreale antica, quasi dimenticata. "Freaks out" è un dipinto del fantastico che immerge in un profumo annusato per rinvenire dalla veglia, fermato tra le pieghe oniriche di un circo da polvere di stelle.

Ci voleva Gabriele Mainetti, in mezzo alla pista di sabbia, col cilindro scucito, a domare le bestie di fantasia, farle stare buone senza perdere la ferina crudeltà. Ci voleva lui, con una valigia di cuoio e scarpe poco allacciate, a riportare il cinema italiano nelle vette dell’impossibile per guardare un panorama sconfinato. Una montagna che Mainetti ha scalato con coraggio e con grande arte e mestiere regalando un film, “Freaks out”, finalmente in sala nonostante le sirene tentatrici delle piattaforme on demand abbiano cercato di sedurlo per mesi.


Ieri Mainetti ha voluto presentare la sua opera a Cosenza, in omaggio alla Calabria che gli ha offerto i boschi della splendida Sila per alcune scene del film. In una sala piena, il regista, affiancato da uno dei suoi attori, Max Mazzotta, apprezzatissimo interprete teatrale e cinematografico, ha parlato alla platea di questa sua opera seconda, nata per caso e sorretta da una volontà di ferro. Commosso Giuseppe Citrigno, all’epoca delle riprese presidente della Calabria Film Commission che investì sulla produzione, ha consegnato a Mainetti e Mazzotta un riconoscimento speciale e nel ringraziarlo il regista non ha escluso il ritorno in Calabria: «Magari lo farò a breve, vedremo».

Mainetti: «Le musiche nate mentre cullavo mio figlio»

Mainetti racconta com’è nata l’idea di imbastire la storia intorno a un gruppo di “diversi” in fuga dalla follia nazista e in cerca di un proprio posto in un mondo che crolla a pezzi e in cui i veri mostri, ça va sans dire, non sono i barbuti o i comandalucciole.

«Dopo il grande successo di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, abbiano agguantato la prima idea che ci è passata per la testa e l’abbiamo difesa con le unghie e con i denti perché eravamo sicuri che fosse quella giusta». E avevano ragione loro. Ma il lavoro immenso, che doveva sorreggere l’ambizione di uno script che non aveva nulla da invidiare ai blockbuster hollywoodiani, a volte s’è presentato come un dirupo da saltare con la fiducia a fare da molla. Per il regista, è stato un po’ come essere la donna cannone che chiude gli occhi e si affida alle stelle quando la miccia s’accende.

E a quelle Mainetti c’è arrivato superando in volata le aspettative e curando la sua creatura nei minimi dettagli, come un vecchio orologiaio. «Le musiche rappresentano un elemento molto importante del film – racconta -. Il tema dei titoli di testa è nato mentre cullavo mio figlio per farlo addormentare. Lo dondolavo e intanto fischiettavo una progressione di note. Ho subito mandato un messaggio vocale a Michele Braga per fissare la melodia e poi è iniziato l’arrangiamento di quello che è diventato il tema dei titoli di testa».

L’immaginario di Mainetti è così solido e sfaccettato, sincero, che riesce a trasportare lo spettatore nel sogno che l’ha reso un autore. Ed è un mondo abitato dall’avventuroso fantastico di Steven Spielberg, dalle radici del lunare George Méliès, dal neorealismo di Rossellini fino ad abbracciare le arie western di Sergio Leone e la sfacciataggine sanguinolenta di Quentin Tarantino. È un multiverso in cui le varie dimensioni scorrono parallele ma si incontrano nel metallo di una ferrovia, magari mentre un treno è in corsa. Il centro della storia ruota intorno al coraggio femminile, di un personaggio, Matilde, un po’ X-Men e un po’ Dorothy Gale, che non s’arrende a perdere quella che considera la sua vera famiglia, e combatte con se stessa e con i nemici fuori.

«Dicono che sono il padre del film, in realtà mi sento come la mamma e adesso che “Freaks out” camminerà da solo, sono certo del figlio che vorrò avere». Ed è un figlio che potrebbe toccare un genere che in Italia, a parte Dario Argento e Mario Bava, ha avuto alterne fortune: l’horror, di cui è sfumato anche “Freaks out”, antica passione di Mainetti.

Max Mazzotta: che emozione di vedermi in sala

Tra Max Mazzotta e Gabriele Mainetti il legame è antico, e risale a più di vent’anni fa quando il regista faceva l’attore e chiese aiuto al suo collega cosentino per imparare l’inflessione calabra. Da allora il rapporto è rimasto saldo e forte. Nel film Max interpreta un personaggio ispirato al “gobbo del Quarticciolo”, Giuseppe Albano, uno dei protagonisti della Resistenza romana contro l’occupazione tedesca. «Questo è stato il ruolo più bizzarro della mia carriera. Dopo tante parti comiche è la prima da cattivo, ma il Gobbo non è proprio malvagio, è un cattivo umano, diciamo pure così».

L’interpretazione di Max concede qualcosa anche al dialetto cosentino che ha strappato più d’una risata al pubblico in sala. «Io sono il capo dei Diavoli Storpi, un’accozzaglia di partigiani, tutti storti e monchi. Quando mi sono rivisto per la prima volta ero a Venezia ed è stata un’emozione incredibile perché un attore quando recita per un film non riesce ad avere contezza di quello che uscirà fuori, anche questa è fede, anche questo è cinema».

 

 

 

Giornalista
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