«La morte è vicina, per me è facile pensarci. Ho praticamente 91 anni, non voglio morire troppo vecchia, ma voglio vivere finché dò alla vita qualcosa e la vita ha qualcosa da darmi». Con questa frase, pronunciata con la consueta lucidità e ironia, Ornella Vanoni ci consegna non solo un pensiero intimo, ma anche una lezione rara sul tempo, sull’arte e sulla morte. Una dichiarazione che spiazza, perché abbraccia con serenità ciò che, culturalmente e collettivamente, tendiamo ancora a rimuovere.

Quando una grande artista parla della propria morte con naturalezza, rompe un tabù antico quanto l’essere umano. Ma è ancora più potente se quella voce appartiene a una delle ultime icone viventi della musica e dello spettacolo italiano. Vanoni non è solo una cantante, è un pezzo di memoria nazionale, una figura che attraversa generazioni e stagioni artistiche, capace di trasformare la fragilità in stile, la malinconia in energia.

Il suo pensiero sulla morte — «non voglio vivere troppo vecchia» — è più che un rifiuto dell’accanimento o della decadenza: è l’affermazione di una dignità dell’esistenza, che vuole essere scelta, finché c’è scambio, vitalità, senso. L’esatto opposto del morire “per inerzia”, come accade a molti, soprattutto in un’epoca che allunga la vita ma fatica a garantirne la qualità.

Non tutti i grandi personaggi dello spettacolo hanno avuto questo rapporto sereno con la morte. Alcuni l’hanno esorcizzata fino all’ultimo, altri ne sono stati segnati sin dalla giovinezza. Franco Battiato, poco prima di spegnersi nel silenzio della sua casa di Milo, aveva già da anni virato la sua produzione verso il trascendente: «Torneremo ancora», diceva, come in un ciclo che va oltre il tempo lineare. Lucio Dalla la evocava cantandola con affetto (“La sera dei miracoli”) e ironia (“Disperato erotico stomp”), ma fu colpito da un infarto improvviso, a 69 anni, al culmine di un tour. Ennio Morricone scrisse il proprio necrologio, dettando che i funerali si svolgessero in forma privata, «per non disturbare». Un gesto estremo di coerenza, anche poetica.

Tuttavia, la morte di un personaggio pubblico non è mai solo una vicenda personale. È anche uno specchio collettivo: ci mostra la fine della grandezza, ci ricorda la nostra finitezza. La scomparsa di una figura amata — come Gigi Proietti o Raffaella Carrà — diventa lutto nazionale, perché con loro se ne va una parte della nostra infanzia, della nostra cultura, di un modo di essere italiani.

Eppure, come ci ricorda Vanoni, si può pensare alla morte senza angoscia. L’artista non la teme, la osserva. La accetta come un passaggio inevitabile, ma non improvviso, non rubato. È proprio questa coscienza del limite a rendere autentica la sua felicità presente: «Adesso sono felice». È una frase semplice, ma rarissima, specie in chi ha vissuto tanto e attraversato la tempesta dello spettacolo, dei riflettori e della solitudine che spesso li segue.

Perché allora la morte fa ancora tanta paura, persino in una società che la rappresenta ovunque, nelle serie TV, nei videogiochi, nelle breaking news continue? Forse perché, in realtà, la morte vera resta invisibile. Nascosta negli ospedali, negata nel linguaggio — si dice “ci ha lasciato”, “non c’è più” —, filtrata dai media con pudore o morbosità. Abbiamo perso la familiarità con il morire, e quindi anche con il vivere nella sua interezza.

Ornella Vanoni, invece, ci ricorda che affrontare la morte non significa rassegnarsi. Significa, al contrario, abitare il tempo che ci resta con verità, senza illusioni, ma anche senza paure inutili. Forse è proprio questa consapevolezza che distingue i veri artisti: sanno quando è il momento di entrare in scena, ma anche quando è il momento di uscire.

E quando quel momento arriverà, Vanoni avrà già detto tutto. Con grazia, ironia e leggerezza. Come solo i grandi sanno fare.