Il buio nella mente

La mattanza dei suicidi in divisa investe anche la Calabria: alle origini di un profondo disagio poco conosciuto

Nel giro di 15 giorni due agenti della polizia hanno deciso di compiere il gesto estremo: alla base c'è quasi sempre un forte stress psico-fisico derivante anche dalla presenza su scene del crimine scioccanti

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di Consolato Minniti
4 luglio 2023
17:54

Nel 2023 sono già 28 gli appartenenti a forze dell’ordine o militari che si sono tolti la vita. Lo scorso anno sono stati in 72. Gli esperti: «Fra le cause: stress e problemi personali, ma anche motivi connessi al servizio e atteggiamenti punitivi». Il timore di chiedere aiuto e la scarsità di strutture.

In vigore nuove norme di sostegno

C’è chi la chiama “mattanza”. Chi “bollettino di guerra”. Qualcun altro parla genericamente di “allarme”. Comunque lo si voglia definire, c’è un fenomeno che, ormai da tempo, è penetrato nei meandri più reconditi e scivolosi del mondo delle forze dell’ordine e di quello militare in genere: i suicidi in divisa. Non è un’emergenza solo italiana, ma riscontrata ormai a livello mondiale. L’escalation preoccupante di episodi ha toccato da vicino anche il territorio calabrese dove, in un lasso di tempo di neanche quindici giorni, due appartenenti alla Polizia di Stato hanno deciso di compiere un gesto estremo, ponendo fine alle loro vite: il primo a Palmi, il secondo a Reggio Calabria. La dinamica, purtroppo, si ripete quasi sempre allo stesso modo: l’esplosione di un colpo sordo, inconfondibile; la paura per ciò che può essere accaduto in caserma; la corsa a perdifiato verso quel luogo dal quale è provenuto lo sparo; la scoperta terribile del collega che ha compiuto quel gesto così drammatico, dal quale non si torna più indietro. È successo a Palmi, il 25 maggio scorso. È successo a Reggio Calabria, il 5 giugno. Due episodi a distanza ravvicinata che, tuttavia, dicono meno di quanto si possa immaginare. Perché a livello nazionale i numeri destano impressione e non certo dal 2023.


I dati dei suicidi in divisa

Solo nell’anno in corso, infatti, l’Osservatorio suicidi in divisa ha contato 28 episodi tra appartenenti alle forze dell’ordine ed alle forze armate. Da quello del primo gennaio a Sabaudia, ai due menzionati a Reggio Calabria, fino all’ultimo (purtroppo solo in ordine di tempo) del 19 giugno a Lampedusa, dove un appartenente alla Guardia Costiera di 50 anni si è impiccato. Ventotto uomini in divisa che, dilaniati dal “buio dentro” – efficace espressione coniata da chi si occupa da tempo della materia – hanno deciso di chiudere con la vita. Si tratta, nello specifico, di 12 appartenenti alla Polizia di Stato, 4 Carabinieri, 2 guardie giurate, due agenti di polizia locale, un carabiniere forestale, un appartenente alla guardia di finanza, uno dell’aeronautica, uno dell’esercito, due della capitaneria di porto ed uno della polizia penitenziaria. Ma è il 2022 l’anno ad aver destato maggiori preoccupazioni. Ben 72 gli eventi suicidari registrati tra le forze dell’ordine, tra cui 21 appartenenti alla polizia di Stato e 14 carabinieri. Nel 2021, invece, sempre secondo le stime dell’osservatorio, sono stati 57 gli eventi avvenuti (tra cui 23 carabinieri, 8 poliziotti, 7 guardie giurate, 5 finanzieri). 51 quelli avvenuti nel 2020, 69 quelli registrati nel 2019, dunque prima dell’avvento del Covid. Come lo stesso Osservatorio tiene a precisare, non vi è pretesa di esaustività, potendo essere il numero effettivo addirittura superiore a quello rilevato, in considerazione del fatto che, in alcuni casi, le notizie non vengono rese note per volontà dei familiari.

La scelta di fondare un Osservatorio

Ma cosa c’è dietro questo fenomeno così complesso? Lo abbiamo chiesto a Cleto Iafrate, fondatore dell’Osservatorio suicidi in divisa. «Decisi di impegnarmi sul monitoraggio dei casi di suicidio dei militari – spiega – dopo aver compiuto uno studio sul benessere del personale. Appartenevo alla Rappresentanza militare, una specie di sindacato giallo, interno all’amministrazione ma con funzioni molto limitate. Nel corso di questi lavori ci imbattemmo in numeri allarmanti sui suicidi dei militari. Destò turbamento apprendere che, solo nel 2010, nell’Arma dei Carabinieri, su un organico di circa 100mila militari, vi fossero 22 casi di suicidio. Un dato che equivaleva ad una percentuale quattro volte superiore alla media nazionale». Iafrate fece delle riflessioni partendo da un presupposto: «Per accedere ai corpi militari bisogna superare dei testi psicoattitudinali molto severi, non sono alla portata di tutti. Ciò mi portò a dedurre che i problemi che spingono alcuni militari a compiere gesti estremi, con tutta probabilità, insorgono in un momento successivo all’arruolamento». Iafrate pone l’accento su un aspetto in particolare: «Mi sconvolse il fatto che si trattasse di “morti invisibili” di cui nessuno parlava. Nessuno voleva occuparsi di loro, neppure sulla stampa». È quello il momento in cui decide di fondare l’Osservatorio.

All’origine dei suicidi in caserma

Sono numerosi gli esperti che sostengono come vi sia una preponderanza dello stress psico-fisico, quale fattore scatenante di tali eventi. L’assunto è che gli agenti siano i primi ad intervenire sulla scena dei crimini ed i primi ad assistere a situazioni molto probanti dal punto di vista psicologico. Si tratta, in altri termini, di fatti emotivamente estenuanti per chi li vive di frequente. Le forze dell’ordine, in particolare, sono esposte ad una quantità notevole di traumi ogni giorno.

Ciò, unito allo stress derivante dal lavoro quotidiano, spesso protratto per molte ore, può condurre gli agenti a situazioni che non si riesce più a gestire. Iafrate è d’accordo solo in parte con questa analisi. L’espero ha spiegato come, a suo avviso, il fenomeno dei suicidi di militari sarebbe influenzato non solo da fattori fisiologici ma anche patologici.

«Secondo qualcuno – chiarisce – le motivazioni alla base dei suicidi sono tutte riconducibili a fattori fisiologici, ossia allo stress connesso al lavoro svolto (spesso si è a contatto con la sofferenza e la morte) ed a problemi di natura personale o familiare, come può essere una separazione, una malattia incurabile, un lutto improvviso». La disponibilità di un’arma da fuoco farebbe il resto, favorendo il verificarsi delle tragedie. Secondo Iafrate, se è vero che «l’incidenza di questi fattori è sicuramente preponderante, da sola non basta a spiegare tutti gli eventi suicidari. Anche gli infermieri, ad esempio, sono a contatto quotidianamente con la sofferenza e la morte.

Anche loro hanno la disponibilità di farmaci, attraverso cui potersi uccidere. Eppure nelle corsie degli ospedali tale fenomeno non è così diffuso». A giudizio del fondatore dell’Osservatorio, dunque, sussistono «ulteriori fattori di potenziamento dello stress derivante dal lavoro svolto e dai problemi personali e familiari». Iafrate li individua in quei «fattori patologici riconducibili ad alcune gravi ed anacronistiche storture ancora presenti nel mondo militare e delle forze di polizia ad ordinamento militare». Questi fattori sarebbero «una specie di danno collaterale provocato da una malintesa e mai declinata specificità militare».

Ma cosa s’intende? «Provo a chiarire: in tempi di guerra gli apparati militari hanno dei poteri speciali che derogano a quelli statuali. In tempo di pace, tali poteri dovrebbero rientrare negli argini costituzionali, perché potrebbero aprire la porta a comportamenti discriminatori nei confronti dei sottoposti. Il rischio concreto è che tali poteri possano trasformarsi in strumenti di pressione e mortificazione del personale». Iafrate porta un esempio concreto: il sistema sanzionatorio disciplinare e le valutazioni caratteristiche dei militari: «Le note caratteristiche sono un giudizio, personale e professionale, di solito annuale, che ogni comandante compila per i suoi collaboratori.

La discrezionalità del compilatore è quasi assoluta, ed incide direttamente sulla progressione di carriera. Accade che un laureato può essere valutato con cultura “nella media” e condannato a non partecipare per anni a concorsi che richiedono una qualifica superiore. Mentre colleghi con semplice diploma avanzano di grado, perché valutati in modo più benevolo. Neanche il titolo legale di studio può essere opposto al diritto del comandante. Il rapporto fiduciario col superiore diretto azzera il valore anche di un curriculum universitario». Anche in merito al sistema sanzionatorio, Iafrate evidenzia alcuni profili di criticità: «L’azione disciplinare non è obbligatoria. Se due militari commettono la stessa mancanza, uno può essere legittimamente sanzionato e l’altro perdonato. Nel sistema sanzionatorio militare, il comandante ha la facoltà di esprimere una sua volontà sanzionatoria quando, come e contro chi vuole. La sanzione, inoltre, ha degli effetti negativi sulla carriera ed abbassa le note caratteristiche. Un giudizio “inferiore alla media” per due anni consecutivi può portare alla perdita del posto di lavoro». In sostanza, «sulla testa del militare pende costantemente una spada di Damocle: la sconfinata discrezionalità dell’amministrazione militare». 

Dal timore di chiedere aiuto all’idea di farcela da soli

Poche strutture idonee e tanto timore di chiedere aiuto. È quanto pensa il noto criminologo Vincenzo Musacchio, il quale, in una recente intervista rilasciata a RaiNews, ha affermato come «molti appartenenti alle forze dell’ordine considerano la richiesta di aiuto come un segno di debolezza. Nel caso riconoscono di avere un problema di salute mentale, in tanti, temono che parlare di questi fatti si possa tradurre in battute d'arresto nella carriera. Tanti non vogliono subire la vergogna e l’umiliazione di vedersi ritirare l’arma e il tesserino». Da qui l’idea – sbagliata – di potercela fare da soli. Qualcuno, rimarca Musacchio si rivolge «all’uso di sostanze stupefacenti o all’alcool nel tentativo di auto curare le patologie». Ciò, però, «può portare a una spirale senza via d’uscita che poi porta inesorabilmente verso il gesto estremo del togliersi la vita». Cosa fare, dunque? Secondo Musacchio «la prima cosa da fare è superare l’idea che cercare aiuto sia un segno di debolezza». Come affermato anche da Iafrate, il criminologo crede che la vera soluzione sia quella di «porre fine al silenzio che circonda la questione della salute mentale. Chi svolge funzioni delicatissime come quelle delle forze dell’ordine deve sottoporsi periodicamente ai servizi di salute mentale». Così potendo intervenire in modo tempestivo e salvare delle vite umane.

Disagio psico-sociale, ritiro dell’arma e sostegno

Sulla scia indicata dagli esperti, anche con riferimento alla disponibilità di armi, è divenuta finalmente legge (pubblicata in gazzetta ufficiale del 9 giugno scorso) la modifica al regolamento di servizio dell’Amministrazione di pubblica sicurezza, con la quale è stato introdotto l’articolo 48-bis che prevede delle misure da attuarsi in presenza di disagio psico-sociale. In sintesi, la norma indica come, nei casi in cui venga accertato un temporaneo disagio psico-sociale, «il dirigente dell’ufficio o il comandante del reparto provvede a ritirare senza ritardo, anche per il tramite di personale a tal fine delegato, l’armamento individuale». Ma cosa s’intende per tale disagio? Secondo la norma trattasi di uno «stato di perturbamento psichico reattivo, che consente lo svolgimento dei compiti non implicanti il porto dell’armamento individuale». Alla richiesta del comandante è prevista una risposta celere dei medici, entro quindici giorni.

Se viene accertata la situazione di disagio, viene fissato un termine non superiore a sessanta giorni per una revisione della condizione del dipendente, che può protrarsi fino a 180 giorni. In tale lasso di tempo, vengono ritirate tutte le armi e i titoli che ne autorizzano l’acquisto da parte del dipendente. Superato il periodo di 180 giorni, se il disagio persiste il procedimento viene devoluto alla Commissione per la salvaguardia della salute del personale. Sono previste anche procedure d’urgenza che autorizzano il dirigente dell’ufficio o del reparto a procedere con immediatezza al ritiro delle armi e dei titoli. Da rimarcare è anche l’introduzione dell’articolo 48-ter, il quale stabilisce come, nel periodo in cui il dipendente non è in possesso dell’armamento personale debba essere assegnato a servizi interni non operativi. In tale lasso temporale. L’articolo 61-bis, infine, stabilisce come, nei casi in cui vi sia stato ritiro temporaneo dell’armamento individuale, vengano proposti al dipendente degli appositi percorsi di sostegno psico-sociale. Gli esiti di tali percorsi sono valutati ai fini del successivo nulla osta.

Giornalista
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