VIDEO | Accoltellata dal suo ex fidanzato quando aveva 17 anni, ha rischiato di morire. Oggi è una donna, un’avvocata, che opera per una giustizia fatta anche di nuove occasioni e di riscatto per le vittime. Negli studi del Reggino.it, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza, il racconto della sua storia e l'appello alle donne
Tutti gli articoli di Società
PHOTO
«Continuava a tempestarmi di messaggi e di telefonate dal giorno prima. Non rispondevo. Voleva incontrarmi ma io non volevo. Dopo l'ultima violenza avevo preso le distanze. Era stata particolarmente forte non solo nei colpi, quelli erano sempre forti, ma nelle parole. Mi aveva giurato che mi avrebbe ucciso e che i miei genitori mi avrebbero pianto sulla tomba. In quel momento ho detto basta».
Era il 22 aprile 2005 quando quel macabro giuramento per un soffio non fu mantenuto. Emanuela De Vito aveva 17 anni ed è miracolosamente sopravvissuta alle quattro coltellate sferratele alle spalle, nei pressi della sua scuola a Reggio Calabria, dall’ex fidanzato che non aveva accettato la fine del loro rapporto.
A un soffio dalla morte e poi libera
«Ricordo il rosso sulle mattonelle del marciapiede. Mi risvegliai in ospedale dopo essere stata letteralmente salvata dall'equipe del dottore Salvatore Costarella al Gom, al quale sarò sempre grata di avermi sottratto alla morte. Avevo perso molto sangue – racconta Emanuela de Vito – e quelle quattro coltellate avevano compromesso un polmone, un rene e il fegato. Per qualche millimetro uno dei colpi non raggiunse la spina dorsale.
Ricordo, nei momenti successivi, quando lessi dell'arresto del mio ex fidanzato, quella sensazione di libertà da cui mi sentì pervasa, finalmente. Libera anche se da sopravvissuta», racconta ancora Emanuela De Vito negli studi del Reggino.it nella nuova puntata del format A tu per tu che oggi, 25 novembre giornata internazionale contro la violenza sulle donne, dedichiamo alla sua testimonianza e al suo accorato alle donne.
Una testimonianza, ascoltando la quale, deve pesare come macigno sulla collettività tutta, quella libertà conquistata al rischio di non sopravvivere.
Una storia, quella di Emanuela che, nonostante i vent’anni trascorsi e anche i passi in avanti compiuti dalla legge e dalla società, ancora vediamo tragicamente ripetersi come continuiamo ad ascoltare storie di annientamento psicologico e fisico della donna prima di quel “basta” che ancora, tante, troppe volte non è sufficiente a salvarle.
Il dolore, la paura, la vittimizzazione secondaria
Sono stati vent’anni lunghi per Emanuela che racconta il dolore e anche la rinascita. Racconta la paura dopo l'uscita dal carcere già nel 2008 di colui aveva tentato di ucciderla. Racconta del processo, della colpevolizzazione e della vittimizzazione secondaria subita, sentendosi dire che se l'era cercata, espressione che ancora si fa fatica a debellare, a destrutturare e guardare nella suo significato intriso di retaggi patriarcali e pregiudizi.
Emanuela racconta delle bugie sugli occhi neri e sui denti rotti del tentativo di proteggere i genitori da quel dolore, da quella preoccupazione che si sarebbe andata ad aggiungere alla malattia oncologica del papà che ha perso nel 2018.
La rinascita e la difesa di altre donne
Oggi di anni ne ha 38, Emanuela, è mamma di tre bambini ed è una avvocata militante che invoca prevenzione, educazione al rispetto. Invoca una giustizia che liberi la vittima e condanni il responsabile ad una pena severa e certa, una giustizia che tuteli le donne, garantendo opportunità di riscatto e un nuovo inizio che non può prescindere dall’autonomia e dal lavoro.
Emanuela racconta anche della sua rinascita anche grazie agli studi che ha scelto di dedicare al diritto. «Ho visto cambiare gli approcci anche in tribunale e ho visto evolversi anche le leggi. Vent'anni fa, quando io ero vittima di violenze e quando ho rischiato di essere uccisa, tutto era ancora molto sottotraccia. Una questione, una piaga di cui non si parlava.
Oggi c'è il codice Rosso e ci sono tanti strumenti ma occorre ancora educare al rispetto e all'affettività fin dall'età infantile e occorre supportare i centri antiviolenza e garantire aiuto alle donne che riescono a chiedere aiuto e a denunciare. Un aiuto che deve essere anche nella direzione di sostenere le donne che riescono a liberarsi a costruire autonomia anche lavorativa, essenziale per ogni nuovo inizio.
Io ho avuto la fortuna di avere accanto una famiglia che mi ha garantito anche gli studi ma non tutte le ragazze e le donne che subiscono violenza si trovano nella stessa situazione. Devono pensarci le Istituzioni e soprattutto questo deve essere il senso di giornate di sensibilizzazione come quella odierna».
La vita dopo
Quelle coltellate hanno segnato per Emanuela un tragico spartiacque tra la vita di prima in cui racconta «mi sentivo come chiusa in una stanza, costretta a stare ferma su una mattonella attorno alla quale c'era un vuoto, un burrone. Non ti senti più una persona ma un oggetto che appartiene a lui», e la vita dopo.
Quella in cui ha convissuto con la paura di incontrarlo per strada quando gli furono accordati gli arresti domiciliari e poi il rientro a Reggio. Una paura che Emanuela De Vito raccontò, denunciando che «la “pena” allora in essere era la sua, pur essendo lei la vittima accertata da un tribunale, piuttosto che quella della persona che l’aveva ridotta in fin di vita. Da vittima vedo la mia tranquillità e la mia libertà negate. Per me nessuno sconto di pena avrebbe potuto invocare». Questa la sua forte testimonianza resa alla Camera dei deputati, su invito dell’allora presidente Laura Boldrini, il 25 novembre 2017.
Le cicatrici trasformate in fiori e farfalle
La vita dopo per Emanuela è stata anche segnata dalla convivenza con le ferite evidenti lasciate sul suo corpo da quella lama che l'aveva attraversata da parte a parte. Ferite che si mostravano ogni volta che indossava un costume. Occorreva risanare anche quelle ferite, come stava già facendo, e ancora fa con quelle della sua anima. «Mi sentivo ancora addosso quella violenza, come se quelle cicatrici fossero la sua firma. E allora – racconta Emanuela De Vito – ho fatto tatuare sopra fiori e farfalle come segno di rinascita. Sono stata anche criticata per averlo fatto e per averlo raccontato, come se mi mettessi in mostra. Io avevo solo voluto testimoniare la possibilità di riconquistare l'agio di stare nel proprio corpo nonostante le cicatrici e di potersi sentire donna nonostante le violenze subite.
Per questo sostengo da sempre il progetto "Sulla mia pelle", fortemente voluto dall'allora vicepresidente della giunta regionale Giusi Princi, in collaborazione con tatuatori calabresi che ancora mettono a disposizione la loro arte per trasformare quelle cicatrici in un segno di bellezza e dunque di speranza», racconta ancora Emanuela De Vito.
Da quel giorno del 2005, in cui rischiando di morire ha riconquistato la sua libertà, Emanuela non si risparmia e racconta la sua storia perché è ancora necessario testimoniare che, anche se sembra impossibile crederlo mentre si è vittima di violenza, la vita al di là di quell’inferno esiste, è bellissima ed è possibile tornare a farne parte.
«Parlate, non restate in silenzio»
Ecco il suo accorato appello alle donne: «Abbiate sempre rispetto di voi stesse e degli altri e se doveste trovavi in una situazione di difficoltà, parlate, non restate in silenzio, chiamate il 1522, chiedete aiuto. Scappate perchè la vostra libertà non ha prezzo. E vi assicuro che il mondo fuori dai maltrattamenti e dalle violenze psicologiche è vita. Il mondo fuori è vita», conclude Emanuela De Vito.




