Indagine archeologica subacquea a Brucoli sulla base di uno studio scientifico che rilancia l’ipotesi sull’origine alternativa. Intanto riemergono memorie che collocano il ritrovamento tra il 1968 e il 1971: storie che si snodano tra contatti con la ‘ndrangheta e archeotrafficanti. Tutte hanno un punto in comune: non c’erano soltanto due statue
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Un nuovo capitolo della ricerca sui Bronzi di Riace si apre dalla costa siracusana. Nei prossimi giorni prenderà infatti il via un’indagine archeologica sottomarina nei fondali di Brucoli, promossa dalla Regione Siciliana per verificare alcune delle evidenze emerse da un recente studio scientifico che rilancia l’ipotesi di un’origine siciliana delle celebri statue. L’avvio delle ricerche è stato annunciato dal dirigente generale del Dipartimento dei Beni culturali della Regione Siciliana, Mario La Rocca, a margine dell’incontro svoltosi a Siracusa per la presentazione dei risultati dello studio pubblicato sull’Italian Journal of Geosciences, rivista internazionale della Società Geologica Italiana. A condurre le operazioni sarà la Soprintendenza del mare, che concentrerà le attività nel tratto di mare antistante Brucoli. Lo studio è il risultato del lavoro di quindici specialisti tra geologi, archeologi, storici, paleontologi, biologi marini ed esperti di archeologia subacquea e di leghe metalliche. Il gruppo di ricerca comprende docenti ordinari e associati di sei atenei italiani: Catania, Ferrara, Cagliari, Bari, Pavia e Calabria.
Alla base dell’indagine vi è la cosiddetta “ipotesi siciliana”, formulata negli anni Ottanta dall’archeologo americano Robert Ross Holloway. Secondo questa ricostruzione, i Bronzi sarebbero affondati nel mare della Sicilia durante i trasferimenti seguiti al sacco di Siracusa del 212 a.C. e solo successivamente sarebbero stati spostati e occultati nei fondali di Riace, in attesa di essere esportati illegalmente.
La tesi è stata ripresa dallo studioso siracusano Anselmo Madeddu nel volume Il mistero dei Guerrieri di Riace: l’ipotesi siciliana. Il lavoro scientifico, coordinato dal geologo Rosolino Cirrincione dell’Università di Catania, si sviluppa lungo tre principali direttrici di ricerca. La prima riguarda l’analisi delle terre impiegate nelle fasi di lavorazione delle statue, che ha evidenziato una netta distinzione tra i materiali utilizzati per la saldatura e quelli della fusione. Le terre di saldatura mostrerebbero una provenienza riconducibile a una cava argillosa nei pressi del fiume Anapo, mentre quelle di fusione, caratterizzate dalla presenza di granitoidi, risultano compatibili con i sedimenti del delta del Crati, in Calabria. Sulla base di questi dati, i ricercatori ipotizzano una realizzazione delle statue in sezioni separate in un’officina di Sibari, seguita dall’assemblaggio e dalla collocazione a Siracusa.
Un’ulteriore linea di indagine ha preso in esame le condizioni di giacitura sottomarina delle statue, attraverso lo studio delle patine di alterazione superficiale. Le analisi indicano che la permanenza nei bassi fondali di Riace, a circa otto metri di profondità, sarebbe stata limitata a pochi mesi prima del ritrovamento avvenuto nell’agosto del 1972. Al contrario, la presenza di organismi e incrostazioni tipiche di ambienti circalitorali, associati a profondità comprese tra i 70 e i 90 metri, suggerirebbe una lunga permanenza in fondali diversi, compatibili con quelli dell’area di Brucoli.
La testimonianza: tre statue recuperate nel 1968
Intanto, da mesi, il quotidiano La Sicilia raccoglie testimonianze che rafforzano l’ipotesi. Ne emerge un racconto stratificato, fatto di memorie tardive, paure mai del tutto dissolte e tasselli che, messi insieme, delineano una storia alternativa e per certi versi inquietante. Storia che sposta l’epicentro del ritrovamento dalla Calabria alla costa siracusana, nel mare di Brucoli, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta.
Una tra le più recenti testimonianze introduce un elemento chiave: la distinzione tra il recupero delle statue e la loro vendita e trasferimento. Secondo il suo racconto, i Bronzi non sarebbero stati tirati fuori dal mare nel 1971, ma già nel 1968, a nord-est di Punta Tonnara, da un fondale di circa settanta metri. A recuperarli non sarebbero stati corallari o sub improvvisati, bensì due sommozzatori altamente specializzati del nucleo Sdai della Marina militare di Augusta, calabresi entrambi, capaci di operare in profondità simulando interventi di bonifica bellica. Un’operazione clandestina, condotta con mezzi militari, coperture plausibili e – come emergerà più avanti – protezioni politiche.
Il testimone racconta di aver assistito direttamente alle fasi del recupero: sagome monumentali, ancora interamente ricoperte di fango, issate da una chiatta con gru e argani. Non due statue soltanto, ma almeno tre guerrieri armati e “molta altra roba”. Solo anni dopo, visitando il museo di Reggio Calabria, avrebbe riconosciuto in quelle figure i celebri Bronzi di Riace.
Da quel momento, la vicenda assume i contorni di una lunga e rischiosa partita a scacchi. Le statue vengono nascoste, spostate, sepolte più volte per sfuggire a controlli e indiscrezioni: prima in una grotta del canale di Brucoli, poi a terra, quindi di nuovo in mare, a profondità minori. Infine il contatto con ambienti della malavita calabrese, la vendita e il trasferimento definitivo verso la Calabria. Il 1971, in questa ricostruzione, non sarebbe l’anno del ritrovamento, ma quello dell’uscita di scena dei Bronzi dalla Sicilia.
Il terzo bronzo: l’Apollo di Cleveland?
L’ottavo testimone, il più recente ma anche il più schivo, conferma a La Sicilia l’impianto generale ma aggiunge nuovi dettagli, come se stesse raccontando capitoli diversi della stessa storia. Anche per lui il recupero avviene tra il 1967 e il 1969. Dopo l’emersione, entrano in gioco sommozzatori locali incaricati di occultare e custodire le statue in attesa di acquirenti. I nascondigli si moltiplicano: barche militari, grotte costiere, perfino un luogo noto come “cimitero degli elefanti”, un’area legata a traffici di reperti paleontologici e archeologici.
Quando un blitz delle forze dell’ordine mette in allarme il gruppo, i Bronzi vengono nuovamente riportati in mare e sepolti in una grotta sottomarina di fronte a Punta Tonnara, a una ventina di metri di profondità, pronti per essere recuperati all’occorrenza. Ed è qui che il racconto introduce un elemento destinato a far discutere: tra le statue di Brucoli non ci sarebbero stati solo i due guerrieri oggi a Reggio, ma anche un bronzo più piccolo, privo di un braccio, identificato senza esitazioni come l’Apollo di Cleveland. Un’opera che, secondo questa versione, avrebbe preso un’altra strada, finendo nelle mani di un potente archeotrafficante romano.
Scudi, spade e statue recuperate al largo di Brucoli
Il quadro si chiude – o forse si complica ulteriormente – con la testimonianza di Marco Bertoni (sempre a La Sicilia), figlio dello storico proprietario del ristorante Trotilon, crocevia informale di sub, pescatori e ricercatori negli anni Settanta. I suoi ricordi di bambino si intrecciano con i racconti del padre: sommozzatori romani che parlano di scudi, spade e statue recuperate al largo di Brucoli; legami diretti con Riace; immersioni quotidiane accompagnate da un pescatore locale; una nave di dragaggio impiegata nelle operazioni. E soprattutto un punto preciso in mare, a nord-est di Punta Tonnara, a grande profondità.
Per Bertoni non ci sono dubbi: quelle statue pescate a Brucoli nel 1971 erano i Bronzi di Riace. O, meglio, erano passate da Brucoli prima di diventare “di Riace”. Oggi, dice, non si tratta di togliere qualcosa a Reggio Calabria, ma di restituire complessità e verità a una storia rimasta troppo a lungo sommersa. Magari – suggerisce – con un gemellaggio simbolico tra Brucoli e Riace, e con copie dei Bronzi a ricordare che il loro viaggio, prima di approdare alla gloria museale, sarebbe iniziato in un altro mare.





