Tra spiritualità solitaria e autoreferenziata, l'abbandono giovanile dell'Eucarestia è un allarme. L’unione tra comunità e Chiesa per affrontare una sfida complessa favorendo l’ascolto
Tutti gli articoli di Societa
PHOTO
L'immagine del deserto è forte, evoca assenza, aridità e abbandono. Quando viene applicata al rapporto tra i giovani e le celebrazioni eucaristiche, essa descrive con chiarezza la progressiva e preoccupante disaffezione delle nuove generazioni nei confronti del cuore pulsante della vita ecclesiale. Oltre a un semplice calo statistico, siamo di fronte a un fenomeno complesso che chiama in causa la Chiesa intera.
Il deserto dei banchi vuoti ha cause profonde, le ragioni per cui i giovani si allontanano dai riti domenicali non sono superficiali ma affondano le radici in un mutato panorama culturale. I giovani di oggi sono spesso alla ricerca di una spiritualità intensa e personale, ma faticano a riconoscerla nelle forme istituzionali. La fede è percepita come un'esperienza interiore, spesso disgiunta dalla pratica rituale. In un mondo che esalta l'autosufficienza e il benessere immediato, la fede e la preghiera non sono avvertite come "bisogno imperioso", riducendo o addirittura annullando la necessità di un incontro comunitario settimanale.
L'istituzione della Chiesa, talvolta, è vista erroneamente come un peso o un ostacolo alla piena realizzazione del proprio io, anziché come supporto e guida. Per quanto raccolto dai commenti di un nutrito gruppo di adolescenti, un motivo ricorrente di allontanamento è la percezione della Messa come "noiosa" o "distante". Le forme liturgiche, i linguaggi utilizzati (soprattutto nelle omelie), e persino l'ambiente parrocchiale, faticano a comunicare il mistero in modo vivo e contemporaneo.
I giovani sono abituati a una comunicazione dinamica e immediata frequentando con regolarità la “scuola” del tutto&subito (intelligenze artificiali e social su tutti). Il rito, se non animato da autenticità e cura, rischia di essere subito come una routine, anziché come una fonte di gioia e significato. Mentre le chiese locali si svuotano, si osserva un paradosso in cui i "pastori" sembrano quasi ignorare la realtà immediata, quella della propria comunità, dedicando tutte le proprie energie a progetti missionari lontani. Legittimi e sacrosanti ma se un giovane si propone per collaborare e trova un parroco "pieno di sé", poco avvezzo all'ascolto e al confronto, e che "guarda lontano" senza accorgersi del deserto che cresce a pochi metri dall'altare, come può nascere la speranza? Inoltre, durante la Messa, un parroco non dovrebbe aver bisogno di ricorrere continuamente al richiamo al silenzio con un brusco "Shhh!" (o simili), un rispetto imposto e autoritario prim'ancora che conquistato con la profondità del rito e la credibilità della sua persona.
Perché i giovani tornino a sentire l'Eucarestia come "fonte e culmine" della loro vita, ci dicono che vedrebbero positivamente una Chiesa chiamata a compiere un atto di avvicinamento e di rinnovamento con una priorità alla prossimità e all'ascolto autentico, la carità, prima di essere globale, deve essere locale. I pastori dovrebbero prioritizzare l'ascolto dei giovani della propria comunità, accogliendo le loro proposte e disponendosi al confronto, anche scomodo. È necessario smantellare l'immagine del parroco "pieno di sé" e sostituirla con quella del pastore umile, che si sporca le mani nel deserto della propria parrocchia, prima di guardare altrove.
Il silenzio in chiesa si conquista con la verità e la sacralità del rito, non si impone con l'autorità. Favorire un linguaggio liturgico (omelia) rinnovato e non banalizzato per la Messa che deve essere vissuta come un incontro gioioso; sarebbe fondamentale che i sacerdoti, con il supporto degli animatori, curino la qualità della liturgia, attraverso omelie brevi, coinvolgenti e realmente aderenti alla vita concreta dei ragazzi. Si potrebbe sperimentare con la musica sacra dell’oggi (comunque sia, il canto è preghiera) che trovi spazio rispetto a quella arcaica (gli esempi non mancano, Rinnovamento dello Spirito, Comunità Gesù Risorto e tanti altri), con l'utilizzo di simboli potenti e con l'introduzione di momenti di silenzio e interiorità che non lascino il rito freddo ma lo rendano un'esperienza spirituale profonda.
Il focus dovrebbe spostarsi dall'obbligo del precetto domenicale (quasi imposto ai ragazzi del catechismo per accedere ai sacramenti della Prima Comunione o delle Cresima) alla possibilità di una relazione autentica. Occorre dare ai giovani un vero spazio decisionale, valorizzando i loro talenti e le loro intuizioni, anche sbagliate. Anzi, sperando che sbaglino il più possibile, il parroco emergerebbe come un “amico” a cui chiedere consigli e a cui affidarsi nei momenti difficili. Ciò che attrae, però, è la coerenza. I giovani hanno bisogno di incontrare adulti, laici, religiosi e sacerdoti che vivano una fede "non triste" ma gioiosa, coraggiosa e trasparente.
L'esempio di una vita ispirata al Vangelo è il primo, insostituibile, linguaggio di evangelizzazione. La sfida della "desertificazione” può e deve essere vinta, per la Chiesa, per le comunità, per i giovani che stanno cercando Dio, ma lo stanno facendo altrove e in modi nuovi. È responsabilità della comunità cristiana incontrarli lì dove si trovano, per trasformare l'aridità in una nuova primavera di fede.

