Le luci sono accese. A Vaglio Lise arrivano le flotte. Per l’autostazione, invece, ci vorrà tarda notte o forse domani all’alba. Però stanno tornando tutti. 

È Natale, è il momento in cui tutti gli emigrati tornano a casa per le vacanze più attese dell’anno, per trascorrere in famiglia e con gli amici qualche giorno prima di tornare a centinaia di km di distanza dalla propria terra. Il sei gennaio al massimo di nuovo valigia in mano, treno o pullman e via alla vita di tutti i giorni. Salutando chi qui resta. Già, ma chi resta? 

“La vita di chi resta” è un meraviglioso libro di Matteo Bianchi proposto per il Premio Strega del 2023 che analizza il lutto in ogni sua sfaccettatura. Qualcuno pensa che sia troppo, ma la partenza dei propri affetti è ogni volta una coltellata. E se non è un lutto, ci va molto vicino. Se non è la vita di chi resta, quantomeno è il dolore.

Spesso, come giornalisti, ci concentriamo su chi va via. L’emigrazione giovanile è una piaga che abbiamo analizzato in ogni modo possibile, tanto che a un certo punto restano solo i freddi numeri. E se Cosenza ha perso un numero a quattro cifre di giovani negli ultimi vent’anni e continua a perderli, significa che nulla è stato fatto per trattenerli. Ma chi resta, che sia giovane o adulto, amico o genitore, come vive?

È un punto di vista diverso che spesso viene derubricato alla frase «va beh, vive la vita di sempre». Il che, in linea di massima, può essere anche vero. Ma se hai vissuto per tanti anni vedendo una persona tutti i giorni e poi non la vedi più, quando per dieci giorni torna a far parte della tua vita poi diventa difficile tornare alla normalità. Perché ti illudi che quella sia la normalità. 

Che sia un figlio, un fratello, un amico, vent’anni della propria vita fianco a fianco sono tantissimi. Sono un quarto della durata media, se la piazziamo a ottant’anni. E se poi quella persona è obbligata a partire, della tua vita quotidiana non fa più parte, almeno fisicamente. Certo, la tecnologia ci ha aiutato a eliminare le distanze, ma a Natale non è così. A Natale ci siamo tutti, siamo qui, fra le strade che ci hanno visto crescere e che ci hanno portato alla maturità. 

E allora, quando una persona a cui vogliamo bene riparte, cosa succede? Abbiamo sempre parlato dell’addio ai monti, mai del lutto, inteso come dolore, di chi resta. Di una madre che non può abbracciare più il figlio, costretta a rifugiarsi dietro a uno schermo perché è la cosa più vicina a un contatto fisico che puoi avere; di un posto vuoto in una pizzeria che si riempirà, se va bene, a Pasqua; di una festa con un invitato che non potrà dire «sì, ci sono» perché altrimenti dovrebbe spendere metà dello stipendio per un viaggio della speranza. 

La vita di chi resta, in questo caso, non è solo un libro. È anche la giornata media di chi a pranzo, dopo aver messo tre piatti per quindici giorni, si rende conto che adesso ne deve mettere solo due. O se ne ha messo due, ne deve mettere solo uno. È la vita di chi resta. E non è un carnevale, tanto quanto non lo è quella di chi è partito. Che sia genitore, figlio o amico.