Un dialogo intenso, crudo, che attraversa i campi profughi del Libano, della Striscia di Gaza, della Cisgiordania, passando per l’orrore di Sabra e Chatila, la tragedia della guerra nei Balcani, e approdando alla domanda più urgente che ognuno dovrebbe porsi: quanto tempo possiamo ancora restare in silenzio? Ed è proprio una di queste la conversazione avuta negli studi di ilReggino.it con Enzo Infantino, attivista per i diritti umani e referente dell’associazione "Per non dimenticare Sabra & Chatila", fondata nel nome di una delle stragi più efferate della storia contemporanea.

«La guerra non è lontana, è a pochi chilometri da casa nostra», avverte Infantino. «Ed è una scintilla pronta a incendiare tutto, perché il dolore di un popolo non può essere relegato alla geografia». Il suo impegno nasce nel 1999, durante il conflitto in Albania, e si radica nel 2003 in Palestina, quando mette piede per la prima volta nei campi rifugiati, spinto dalle immagini di quella strage del 1982, che a 16 anni lo scosse irrimediabilmente. Da allora, ogni settembre ritorna nei territori occupati, testimone diretto della resistenza quotidiana di un popolo, della fame, della censura, e dell’ingiustizia sistemica.

«Non è una guerra, è un genocidio», afferma senza esitazioni. E chi ascolta capisce subito che non si tratta di un’esagerazione retorica. «Sono oltre 20.000 i bambini uccisi, la fame è usata come arma, i farmaci bloccati, l’accesso all’acqua negato. Gaza è stata ridotta a un deserto di morte, sotto gli occhi complici del mondo occidentale».

Eppure, la narrazione mediatica - specie in Italia - ha coperto per anni questo massacro con il velo della propaganda. «Perché se sostieni la Palestina vieni additato, schedato, visto come un estremista. Ma in uno Stato democratico come il nostro, come si può accettare questo? C’è una colpevole censura, e chi fa informazione dovrebbe porsi delle domande».

Enzo Infantino ha conosciuto da vicino la dignità di chi ha perso tutto. Di chi conserva la chiave della propria casa come unico simbolo di speranza. «Ogni volta che entriamo nelle loro case nei campi libanesi, ci mostrano quella chiave. È il ricordo di ciò che è stato loro tolto e il sogno, mai spento, di tornare un giorno nella propria terra. Quella speranza, che noi occidentali abbiamo dimenticato, per loro è tutto».

Negli anni, ha percorso i luoghi più martoriati del conflitto: Rafah, la Valle della Bekaa, Nablus, Gaza City. Lo ha fatto senza chiedere autorizzazioni a Israele, entrando dalla parte egiziana per non legittimare - neppure simbolicamente - l’occupazione. «Gaza è un carcere a cielo aperto da decenni, sotto totale controllo israeliano. Nulla entra o esce senza il loro consenso. È ingenuo pensare che il 7 ottobre sia stato un fulmine a ciel sereno. Le radici del conflitto risalgono al 1947, con la Nakba, l’espulsione forzata di 700.000 palestinesi. Hamas ha vinto le elezioni nel 2007, da allora è partito un embargo che ha strangolato una popolazione intera. Ma i palestinesi non sono Hamas. Sono un popolo, con storia, cultura, dolore. E vogliono solo vivere in pace».

Ma oggi la situazione è ancora più drammatica. I fondi dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, sono stati tagliati su pressione di Israele. «Questo significa che i bambini non andranno a scuola, gli ospedali chiuderanno, le famiglie non riceveranno più beni di prima necessità. È una condanna a morte silenziosa, una forma di sterminio sociale e culturale».

Enzo Infantino non è un analista, non è un politico, non è un portavoce. È un uomo che ha scelto di esserci, con il suo corpo, la sua voce, il suo impegno. «Oggi l’unico vero aiuto è la mobilitazione. Le manifestazioni, le mozioni dei Comuni che chiedono il riconoscimento dello Stato di Palestina, sono atti simbolici ma potentissimi. I governi possono ignorare, ma i cittadini no. Oggi bisogna scegliere da che parte stare. Il silenzio è complicità».

Alla fine dell’incontro, quando gli si chiede degli occhi dei bambini, la voce si spezza. Le parole si fanno lente. «Ho visto bambini morire bruciati nelle tende, bambini affamati, bambini che sopravvivono con un pezzo di biscotto. Ma nonostante tutto, resistono. E non possiamo voltare le spalle».

Infantino partirà di nuovo a settembre. Tornerà nei campi, tra chi lo aspetta come si aspetta un parente lontano. E tornerà, ancora una volta, a raccontarci quello che non vogliamo vedere. Perché - come dice lui - la storia insegna, ma non ha scolari. Sta a noi diventarlo.