Mi chiamo Raffaele Piccolo, ho sedici anni, vivo nel Sud e scrivo perché ho paura. Paura di un mondo che arde lontano e manda scintille fin dentro le nostre case, paura di un’Italia che si logora, paura di una politica che ha dimenticato la carne e il sangue delle persone per ridursi a un teatro di slogan e di bugie. Non è questione di destra o sinistra: è questione di responsabilità. Cambiano i volti, cambiano i simboli, ma il copione resta lo stesso. Una promessa oggi, una smentita domani. Si parla di crescita, di futuro, di riforme, ma intanto il popolo si consuma. Le famiglie faticano ad arrivare a fine mese, i giovani rinunciano ai sogni, i territori più fragili restano sempre un passo indietro. Questa non è politica: è pura sopravvivenza travestita da programma.

Io chiedo: dov’è la verità? Dov’è il coraggio di dire le cose come stanno, senza recitare per strappare applausi? Ci raccontano che il Paese è forte, che basta resistere, che presto tutto migliorerà. Ma la realtà è fatta di ospedali al collasso, di scuole dimenticate, di ragazzi che scappano perché qui non c’è spazio. Il futuro sembra sempre altrove, mai dove viviamo. E mentre ci illudiamo di essere protetti, il mondo intorno brucia. Guerre che sembravano distanti ora battono alla nostra porta: conflitti che scuotono economie, che alzano i prezzi, che fanno tremare la speranza. Non servono le sirene a ricordarcelo: basta la bolletta che aumenta, il pane che rincara, la paura che una decisione presa lontano possa stravolgere la nostra vita. Noi, adolescenti, cresciamo in un clima in cui la guerra non è una notizia, ma un’ombra che ci accompagna ovunque.

Eppure la guerra non è fatta soltanto di bombe. È guerra anche la precarietà quotidiana. È guerra il padre che perde il lavoro e non sa come dirlo ai figli. È guerra la madre che sceglie se comprare i libri o pagare le bollette. È guerra lo studente che abbandona gli studi perché non ha mezzi. È guerra l’emigrazione forzata di chi sogna un futuro migliore. È guerra l’assenza di speranza, che spegne lentamente ogni possibilità. Io, ragazzo di sedici anni, mi chiedo: perché dovrei accettare questa normalità di macerie invisibili? Perché dovrei convincermi che non c’è alternativa? Scrivo con rabbia perché sento di avere il diritto di chiedere di più. Un’Italia che non viva solo di promesse. Un’Europa che non si regga soltanto sulla paura del nemico. Un mondo che non baratti il futuro dei giovani con gli interessi immediati di chi comanda. Se la mia voce sembra cattiva, è perché non intendo accarezzare chi tradisce.

Non importa quale volto sieda al potere: chi governa senza guardare i cittadini negli occhi, chi usa la paura come arma di consenso, chi trasforma il dolore in propaganda è colpevole di un tradimento che pesa più di qualsiasi sconfitta politica. Io ho paura, sì. Ma più forte della paura è la convinzione che non possiamo restare in silenzio. Se i potenti continueranno a ignorarci, saremo noi la generazione che cresce tra macerie visibili e invisibili a ricordare loro che il futuro non appartiene a chi lo spreca, ma a chi lo pretende. Perché la paura può piegare un individuo, ma non fermerà mai un popolo che decide di non sopravvivere soltanto, ma di vivere davvero.