Ricorsi dei genitori contro pagelle “sporcate” da voti bassi, successi già incorniciati prima ancora di essere meritati. Il fallimento eliminato agli occhi di bambini e ragazzi. Poi però non ci sarà alcun avvocato quando il colloquio di lavoro andrà male o perderanno un amore
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Educare alla sconfitta. Ho sentito madri vantarsi nei corridoi di scuola come se ogni figlio fosse un prodigio: pagelle immacolate, voti altissimi fissi, promesse di lauree e successi già incorniciati prima ancora di essere meritati.
Ho visto padri incrociare le braccia, convinti che un voto basso sia un affronto, un’umiliazione personale, mai un’occasione per crescere.
E poi, dietro quella facciata di orgoglio gonfiato, resta la stanza di un ragazzo: un letto in disordine, un quaderno stropicciato, un numero rosso in fondo a una pagina. Un silenzio che pesa più di mille lodi.
Un fallimento che, se fosse accolto, varrebbe oro.
Ma noi — noi adulti — abbiamo smesso di capire. Abbiamo scambiato l’amore per assoluzione. Abbiamo deciso che ogni sconfitta va cancellata, coperta, strappata via dal registro.
Non sia mai che resti una traccia di imperfezione. Non sia mai che un ragazzo torni a casa con le spalle curve e il cuore un po’ più forte.
Oggi, a scuola, basta un 4 in rosso su una verifica scritta, oppure un’interrogazione andata male, per far tremare un preside.
Non perché non sia giusto: ma perché ormai tutti sanno che dietro quel numero potrebbe arrivare una diffida legale, un reclamo, un avvocato pronto a smontare la valutazione parola per parola.
Le scuole vivono così: con la paura che ogni voto sia un innesco.
Un tempo, l’errore era un inciampo, qualcosa da riconoscere, un punto di partenza sul quale intervenire e costruire.
Oggi l’errore è qualcosa di non concepibile. Servono Pec, verbali, lettere di scuse per cancellarlo in fretta.
E intanto, in mezzo a tutto questo, lo studente se ne sta seduto a guardare come si annulla un fallimento: non studiando, ma minacciando.
Quattro minuti di studio per due settimane di carte bollate. Il padre giura che non si fermerà finché quel voto non sarà annullato. Dice: “Mio figlio non può sbagliare. Mio figlio non deve soffrire”.
E invece soffrirà — ma più tardi, e molto di più. Soffrirà quando nessun avvocato potrà fargli cambiare il risultato di un colloquio di lavoro andato male, una porta chiusa in faccia, un amore perso.
Perché la vita non firma ricorsi. La vita boccia senza appello.
Educare alla sconfitta dovrebbe essere la prima lezione. E invece è diventata la più censurata. Si preferisce illudere piuttosto che dedicare del tempo e spiegare. Si preferisce mentire: “Andrà tutto bene”, “Te la caverai”, “Non è colpa tua”.
Pasolini l’aveva visto prima di tutti: questa mutazione che ci ha resi incapaci di dire la verità.
Un popolo di padri e madri pronti a strappare la pagina sporca pur di non vedere la macchia.
Ma non c’è progresso dove non c’è sconfitta. Non c’è futuro dove non c’è caduta. Educare alla sconfitta non vuol dire godere dell’umiliazione: vuol dire dare strumenti per restare in piedi quando tutto crolla.
Un figlio deve sapere che un brutto voto è una ferita che si chiude, non un marchio che resta. Che rialzarsi dopo una figuraccia è la forma più concreta di libertà. Che chi ha imparato a perdere, prima o poi sa anche vincere.
Ci vorrebbe più silenzio e meno avvocati. Più ascolto e meno diffide. Più tempo speso a capire perché un ragazzo non studia, e meno ore a limare reclami. Ci vorrebbe il coraggio di dire: “Hai sbagliato. Questo è il punto di partenza, ora bisogna cambiare. Prova ancora”.
Perché un figlio capace di perdere senza frantumarsi, domani sarà un uomo libero. E perché, alla fine, un Paese che non sa perdere è un Paese che non saprà mai vincere davvero.