Sul ponte Bucci i cubi sono tutti in ordine numerico, dall’1 al 46. Impossibile sbagliarsi. Ma se ai numeri si aggiungono le lettere ecco che l’Unical può diventare un labirinto. «Mi perdo anche io che ho studiato qui», dice il professor Paolo Zimmaro scendendo le scale che portano al cubo 45A. Camicia chiara e occhiali scuri – perché l’estate è improvvisamente esplosa e il sole picchia forte – ci fa strada fino al suo studio. Computer acceso, sulla scrivania un compito da correggere. Alle pareti, le tracce di un cammino che dalla Calabria lo ha portato negli Stati Uniti e poi di nuovo qui.

Sette anni da ricercatore e docente all’Università della California, con la quale tuttora collabora come research affiliate al “B. John Garrick Institute for the Risk Sciences”. Nel 2020 il rientro. Nella sua Paola, dove oggi vive con la moglie – anche lei ricercatrice tornata con un bagaglio di prestigiose esperienze internazionali – e due figlie di 7 e 5 anni. E all’Unical, l’università dove si è laureato in Ingegneria civile e dove insegna al Dipartimento di Ingegneria dell’ambiente.

Oggi, per l’ateneo che lo ha visto crescere professionalmente, è quello che si dice un vanto. Perché il professor Zimmaro è stato di recente premiato con il TC203 Young Researcher Award, riconoscimento che la Società internazionale di Meccanica dei terreni e Ingegneria geotecnica con sede a Londra assegna ogni due anni ai ricercatori sotto i 40 anni che si sono distinti per l'eccellenza negli studi nel campo dell'ingegneria geotecnica sismica. Un primato doppio, perché il docente calabrese è anche il primo italiano ad aver ricevuto il premio da quando fu istituito nel 2012. «Per me era l’ultimo anno utile», commenta lui. Trentanove anni, si definisce «schivo» ma quando parla di ciò che lo appassiona è un fiume in piena e ad ascoltarlo si prova un po’ di invidia per i suoi studenti.

Una bella notizia che arriva dall'Unical. È calabrese il miglior ricercatore al mondo di ingegneria geotecnica sismica under 40. Si chiama Paolo Zimmaro, è di Paola, e insegna all'ateneo di Rende

Professore, di cosa si occupano le sue ricerche?
«Studio tutto quello che c’è sotto ai nostri piedi allorquando c’è un terremoto. Il terremoto crea delle onde sismiche che si propagano nel terreno, io studio cosa accade quando toccano dei manufatti, delle grandi opere come le fondazioni di un ponte, una diga in terra o degli argini fluviali. Per fare questo bisogna conoscere la pericolosità sismica del sito per poi valutare il rischio».

Quanto sono importanti questi studi per la Calabria?
«Sono fondamentali. Noi qui abbiamo un laboratorio a cielo aperto. Siamo una delle aree a più alta pericolosità sismica del mondo. Come ricercatori abbiamo il dovere di analizzare le caratteristiche del territorio. Per poterlo fare servono forze multidisciplinari e il fatto di stare in un campus come l’Unical rende più semplice la collaborazione, che crea quella che negli Stati Uniti si dice cross-pollination, l’impollinazione tra vari campi che permette alla conoscenza di spingersi oltre determinate frontiere».

Quali sono i rischi maggiori nella nostra regione?
«La Calabria ha tre tipi di vulnerabilità. Il primo è strutturale, perché abbiamo centri storici con un patrimonio storico e architettonico eccezionale, è una fortuna ma anche una debolezza. L’altro tipo è legato al fenomeno della liquefazione, che qui è stato osservato per la prima volta nel 1783 nella Piana di Gioia Tauro: in pratica in alcune zone i terreni hanno caratteristiche tali che durante il terremoto si comportano come sabbie mobili, quindi tutto quello che ci sta sopra collassa anche se si tratta di strutture perfettamente progettate e costruite. Il terzo tipo riguarda le frane indotte dai terremoti. La soluzione è studiare, pianificare e cercare di mitigare il rischio strutturale, per esempio in questo senso il sisma bonus è stato sottovalutato. Riguardo a liquefazione e frane, anche qui ci sono soluzioni possibili ma vanno individuate. Tutto questo non si fa in un giorno. Il ruolo del ricercatore è quello di generare degli studi robusti dal punto di vista scientifico e far sì che possano poi essere implementati nelle norme».

Lei si è laureato all’Unical, com’è studiare qui?
«Non abbiamo nulla da invidiare a nessuno. Io ho avuto l’opportunità di lavorare nell’Ucla, che è l’università pubblica numero uno negli Usa. Posso dire che i nostri studenti dell’Unical sono assolutamente competitivi con le migliori università del mondo».

Dal punto di vista della ricerca?
«All’Unical ci sono ricercatrici e ricercatori di altissimo livello mondiale. E questo va preservato. Io da quando sono tornato in Italia mi batto perché il sistema pubblico possa essere supportato e migliorato il più possibile. Dobbiamo difendere la possibilità di portare avanti studi di livello mondiale in istituzioni pubbliche, che quindi non hanno altro interesse se non quello di fare avanzare la scienza. Ogni tanto sentiamo parlare di tagli alla ricerca, all’istruzione. Queste sono istituzioni che in territori come i nostri fanno la differenza. La società, se ha un livello di istruzione più elevato, può migliorare in tutto, si seminano oggi cose che sembrano non produrre nel brevissimo termine, ma che nel giro di due-tre generazioni creano un ambiente più favorevole».

Difficoltà?
«Nessuna se non quelle che esistono in qualsiasi università del mondo, come l’iperburocratizzazione. Però a livello nazionale abbiamo la necessità di avere, come ce l’hanno gli altri Paesi, un’agenzia per la ricerca che in maniera centralizzata riesca a dare certezze sui tempi di erogazione dei finanziamenti e a selezionare revisori trasparenti e di altissimo livello».

Come si è ritrovato negli Usa?
«Mi occupavo di ingegneria geotecnica sismica come argomento di dottorato. Alla fine del primo anno – studiavo alcune tematiche relative alla pericolosità sismica d’avanguardia – cercavo di capire dove apprendere queste tecniche avanzate. Allora il più grande studioso al mondo era – e lo è tuttora – quello che è poi diventato il mio mentore, John Stewart dell’Ucla. Il mio tutor di dottorato ha inviato un’email e lui è stato entusiasta, mi ha accolto nel suo gruppo di ricerca, dove sono rimasto diversi mesi. Finito il dottorato, mi è stato offerto un contratto post doc per tornare subito negli Stati Uniti, cosa che ho fatto».

A livello professionale un’esperienza importantissima, a livello personale?
«Quella realtà ha segnato gli anni più importanti della mia vita. È stato il periodo in cui mi sono sposato, le mie figlie sono nate entrambe negli Stati Uniti».

Per chi studia qui l’esperienza all’estero è auspicabile?
«Assolutamente auspicabile. Io peraltro sono il delegato all’internazionalizzazione del dipartimento, cerco gli studenti nei corridoi per far sì che abbiano un’esperienza all’estero. È arricchente per due motivi. Il primo è che si possono conoscere realtà tecniche e scientifiche che magari nell’università di provenienza non sono trattate con quel punto di vista, per cui ti allarga la mente. Il secondo è che ti forma dal punto di vista personale, intanto obbligandoti a imparare una lingua. Poi uscire dalla tua comfort zone e imparare ad adattarti ti rende cittadino del mondo».

Quella di tornare in Calabria per lei è stata più una scelta di testa o di cuore?
«Di testa senza dubbio. Ho sempre interpretato la ricerca come una grande comunità per cui non è essenziale il luogo fisico nel quale lavori. È stata una scelta di testa perché io conoscevo benissimo le potenzialità dell’Unical, che è un’istituzione che da sempre dà tantissimo al territorio. E in quel momento stava puntando molto sull’internazionalizzazione».

L’Unical è senza dubbio un fiore all’occhiello in Calabria. Spesso però i nostri ragazzi sono più attratti da altre università in Italia. Lei che consiglio si sente di dare?
«Io consiglio assolutamente di studiare qui in Calabria. L’ho fatto io in prima persona. Qui abbiamo innanzitutto il primo campus d’Italia e il più grande, un gioiello dal punto di vista architettonico che fornisce tutti i servizi dei campus anglosassoni. Questo permette inoltre di avere nello stesso posto una concentrazione di saperi. A me capita di partecipare a seminari di colleghi di altre aree che mi aprono gli occhi anche su temi che riguardano i miei studi. Oppure al bar, ci si incontra e si parla e magari scocca una scintilla, ti viene un’idea. È un fatto fondamentale. Poi, ripeto, è un campus in cui ci sono persone che lavorano ai massimi livelli in campo internazionale e che offre opportunità strepitose. Certo, se si vuole andare in un’altra città per un interesse particolare allora è giusto farlo, ma non c’è la necessità dal punto di vista della formazione perché quello che l’Unical riesce a offrire non ha nulla da invidiare a nessuna altra università del mondo».

Qui come altrove, però, per riuscire bisogna lavorare duro.
«Per un successo ci sono mille fallimenti. I social media oggi impongono un modello dove si è sempre sorridenti, bellissimi, vincenti. Questo non succede quasi mai. Nella vita reale si ha a che fare con duro lavoro, notti insonni, problemi che non si riesce a risolvere. Poi finalmente capita magari di avere un riconoscimento e allora c’è un momento di gioia, come è accaduto a me. Ma dietro c’è tanto altro. Ci sono errori e fatica. Ed è importante creare questa consapevolezza nelle nuove generazioni».