REPORTAGE | Brahim, missione Jihad

Per il Tribunale del Riesame di Catanzaro il reato di terrorismo virtuale non esiste. Brahim esce dal carcere, risarcito di 60 mila per ingiusta detenzione, e corre in Siria al fianco dell'Isis. E' uno degli 8 jihadisti 'italiani' morti in battaglia
di Angelo De Luca
19 novembre 2015
16:34

A Sellia Marina, come nel resto del mondo, per i musulmani è il 1435. Una data che, a volergli dare una connotazione occidentale, diversamente dal sacro calendario di Maometto, rappresenta quel periodo storico a cavallo tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento. Ayub è in Italia dal 1998. Marocchino e residente proprio sopra la moschea, che a volerla considerare tale - forse - si fa un torto alla decenza dei luoghi di culto, rinchiusa in un magazzino sgangherato al lato di un parcheggio di macchine abbandonate e rottami vari. Il giovane ambulante ci apre la sua casa con la tranquillità tipica di chi non ha nulla da nascondere. Non si scompone nemmeno quando gli chiediamo di raccontarci una qualche versione dei fatti del Bataclan, dimenticandosi il recente passato di Brahim, disconoscendolo totalmente perché “io con quella gente non ho niente a che fare”.

 L'interno della moschea di Sellia Marina


Ci porta nella moschea, non senza averci raccomandato di togliere le scarpe prima di entrare. Non vuole che si tocchi il testo sacro del Corano, “a meno che non ti sei lavato le mani”. “E’ la nostra religione”, aggiunge.
Col dovuto rispetto che si deve ad un ragazzo comunque inerme, seppur fossimo a casa sua, tentiamo di sapere di più di lui e della sua vita, cercando di entrare con delicatezza dentro il suo animo che, siamo sicuri, non è capace di mentire. “Sai cosa vuol dire Islam?” domanda. “Islam vuole dire pace”.

 

Ayub racconta il suo rapporto con gli italiani. “Ne conosco tantissimi, la mia ragazza è italiana”, ci dice. Di certo non siamo andati li per intavolare un discorso antropologico o di convivenze e integrazione. I mercanti di vestiti e tappeti dell’area sub-sahariana hanno facce e gestualità ben radicate nel nostro immaginario collettivo. A noi interessa sapere di Brahim. Uno degli otto jihadisti vissuti nel nostro Paese, che ha deciso di combattere con l’Isis in Siria, rimanendoci. Ucciso. E’ rimasto a Sellia Marina fino almeno al 2011, quando a seguito di un blitz della Digos di Catanzaro, lui, suo padre e un loro amico sono stati arrestati con la pesante accusa di presunte attività di addestramento alle azioni violente con finalità di terrorismo, radicalizzazione e proselitismo.

 Il Corano e le preghiere

Era gennaio. L’Isis non aveva ancora avuto la sua malefica benedizione. Muoveva, però, i primi passi. Da lì a poco la storia cambia. Per Brahim e gli altri le porte del carcere si riaprono, ma per la libertà. Il Tribunale del Riesame da ragione alle tesi degli avvocati difensori: il fatto non sussiste perché il reato di terrorismo virtuale non esiste. Inoltre, lo stesso collegio giudicante, conferma pure il risarcimento di 60 mila euro a testa da parte dello Stato reo di aver detenuto ingiustamente tre innocenti.

 

Appena fuori Brahim scompare. Lascia Sellia e soprattutto lascia l’Italia. E’ già l’alba del 2012. In Siria le truppe del sanguinario Bashir Al-Assad iniziano a perdere progressivamente colpi; Kobane, invece, tiene testa. L’Isis però sta avanzando molto velocemente. Il suo esercito di miliziani “fino alla morte” comincia a distruggere non solo uomini e donne, ma anche città e monumenti.

Brahim è uno di loro. A Sellia Marina non tornerà più. Ayub non lo conosce e non l’ha mai conosciuto. Non ricorda di averlo mai visto pregare nella moschea sotto casa sua. Il suo animo non è capace di mentire, ma farlo una volta sola non è peccato. Per paura o malafede non si è capito.

 ANGELO DE LUCA

 

Giornalista
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