La testimonianza di don Domenico Simari mostra come un territorio ferito ritrova vigore attraverso ascolto, inclusione e relazioni autentiche
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Il centro storico di Rossano, con le sue pietre antiche e le sue vie strette, è stato per anni un luogo dove la nostalgia superava la speranza. La mancanza di lavoro, l’abbandono, la fuga dei più giovani e il veleno di una microcriminalità strisciante avevano costruito una cappa pesante, quasi soffocante. È in questo scenario che don Domenico Simari ha vissuto il suo primo incarico pastorale, un tempo che ancora oggi definisce come un passaggio decisivo per comprendere l’essenza del proprio ministero.
Dopo gli studi in Teologia, l’Arcivescovo lo inviò alla Cattedrale del Centro storico, un vero "battesimo di realtà". Accolse quel compito con curiosità e prudenza, consapevole che immergersi in un luogo significa lasciarsi interrogare dalle sue ferite.
Nel borgo individuò subito ricchezze preziose, segrete vene d’oro nelle relazioni e nella storia, ma comprese anche l’urgenza di un territorio segnato da sofferenze. A ferire non erano soltanto le difficoltà economiche: più profonda era la perdita di fiducia, quel lento scorrere via delle persone che trasformava interi quartieri in echi vuoti. In quei primi mesi ascoltò parole dure, che lo colpirono più di altre.
Ricorda bene il giudizio che lo invitava a distinguere tra "giovani di serie A" e "giovani di serie B": una lettura spietata, incapace di vedere la dignità dei ragazzi più fragili. «Mi invitavano, di fatto, a disertare i più feriti» afferma oggi con amarezza.
Il cinico giudizio che segnava i giovani
La ferita più lacerante non era soltanto sociale. Era culturale, spirituale, umana. L’idea che esistessero giovani più meritevoli di altri rischiava di cancellare ogni tentativo di costruire una comunità. Quelle parole gli pesarono addosso come un macigno. «Non nascondo di aver rischiato di soccombere, di rimanere anch’io sepolto sotto quel cielo di piombo» confida. Eppure, mentre tutto sembrava spegnersi, comprese che la prima sorgente da cui ripartire erano proprio loro: i giovani, i bambini, i ragazzi silenziosi che, pur feriti, conservavano un barlume di attesa. In quei volti intravide la possibilità di invertire la rotta. Cominciò a frequentare i loro luoghi: la scuola, le piazze, gli spazi dove si muovevano senza sentirsi osservati. Mise radici nella loro quotidianità per costruire, passo dopo passo, un porto sicuro.
La strategia era semplice: responsabilità, fiducia, ascolto. Affidò ai giovani compiti concreti nella gestione delle attività, costruì momenti di riflessione, aprì spazi in cui potessero sentirsi accolti e non giudicati. Secondo don Domenico, la ferita più grave della nuova generazione è l’isolamento: «La paura di essere soli, abbandonati a se stessi, dinanzi alla grandezza dell’esistenza». Per questo la Parrocchia lavorò perché nessuno restasse ai margini. Alcuni adulti, diventati punti di riferimento, contribuirono a creare una rete di sostegno basata su fraternità e rispetto. Nacque così una comunità che non voleva lasciare indietro nessuno.
Una stagione di iniziative che ha ridato respiro al borgo
In breve tempo il Centro storico tornò a vivere. Uno dei primi segnali fu la sorprendente partecipazione all’Estate Ragazzi: nel 2018 arrivarono duecento bambini e ottanta giovani animatori. Per un luogo dato per privo di energie, fu un segnale potente. Villa Labonia si trasformò in una fucina di giochi, laboratori e amicizie.
Nel periodo natalizio, lo spazio antistante la Cattedrale divenne il villaggio della Piccola Betlemme, con una rappresentazione vivente capace di riavvicinare le famiglie e restituire al quartiere un senso di unità. La stessa energia si ritrovò nel Musical sulla Passione e Risurrezione, un evento che coinvolse giovani e adulti in un’esperienza condivisa. La vita comunitaria si arricchì anche di momenti spirituali e culturali: incontri formativi, pellegrinaggi, campi parrocchiali, attività in Seminario, iniziative di carità verso gli anziani e le case di accoglienza.
Persino il ballo della Quadriglia, tradizione radicata nella zona, divenne occasione per portare un sorriso dove serviva. Questi tasselli, messi insieme, hanno ricostruito un’identità collettiva. La terra arida, come la descrive don Domenico, «ha cominciato a fiorire, giorno dopo giorno».
Il duplice ruolo e le nuove realtà
Oggi don Domenico vive un ministero articolato tra Parrocchia e Scuola. È vicario parrocchiale nella Comunità di San Giovanni XXIII a Corigliano ed è docente di religione all’IIS L. Palma. Questo duplice ruolo gli permette di osservare da vicino le domande profonde dei giovani. Non vede problemi nuovi, ma il persistere delle questioni eterne: affettività, solitudine, ricerca di senso.
Nel mondo dominato dai social e dall’intelligenza artificiale, ritiene essenziale comprendere il digitale come un territorio da abitare con creatività, senza però rinunciare al valore irrinunciabile della relazione viva. «La vera forza del Vangelo è un leggero soffio vitale» afferma.
Non è una formula, ma un incontro: sguardi, gesti, parole che restituiscono dignità. Nella collaborazione tra Parrocchia e Scuola vede un’opportunità storica. Due rive, dice, che non possono restare separate. Qui nasce la possibilità di costruire un laboratorio di speranza, dove la fede trova intelligenza e l’intelligenza ritrova il cuore. Un luogo in cui educazione e spiritualità si intrecciano per formare cittadini responsabili e persone consapevoli del proprio valore.



