Nel 1978, l’approvazione della legge 180 — conosciuta come legge Basaglia — ha segnato una svolta storica per il nostro Paese: l’abolizione dei manicomi come luoghi di contenimento e la nascita di un modello basato sull’assistenza territoriale, la centralità della persona e il diritto alla cura in libertà. Una scelta di civiltà che ha fatto scuola nel mondo, collocando l’Italia all’avanguardia nell’approccio alla salute mentale.
Oggi, però, quel modello è messo seriamente in discussione da un disegno di legge all’esame del Senato, noto come ddl Zaffini, dal nome dell’ex presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato, Francesco Zaffini (Fratelli d’Italia). Il provvedimento, selezionato come testo base tra quattro proposte (due di maggioranza e due di opposizione), è ora all’esame della Commissione Affari sociali. Si tratta di una proposta che, nella sostanza, contraddice lo spirito e la lettera della 180.

Il disegno di legge prevede l’introduzione di strutture residenziali ad alta contenitività — i cosiddetti "mini-manicomi" — che ripropongono, su scala ridotta, la logica istituzionale superata nel 1978. Si tratta di un cambio di paradigma pericoloso: invece di investire su servizi di prossimità e comunità, si torna a immaginare luoghi separati per persone fragili, in una logica di rimozione del problema più che di presa in carico.

Altro elemento di forte criticità è l’introduzione esplicita della contenzione meccanica — ovvero la possibilità di legare i pazienti al letto — nel nostro ordinamento. Una pratica che la comunità scientifica internazionale considera sempre più una forma di tortura e non uno strumento terapeutico. Legittimarla normativamente rappresenta un arretramento etico e medico grave.
A ciò si aggiunge il raddoppio dei termini per i trattamenti sanitari obbligatori (TSO): dagli attuali 7 a 15 giorni, con possibilità di ulteriore proroga. Un dispositivo nato come misura emergenziale rischia così di trasformarsi in routine, snaturando la sua funzione e riducendo le garanzie per la persona.
Queste proposte non sono neutre né tecniche: sono espressione di un’idea regressiva, che interpreta la sofferenza psichica come un problema di ordine pubblico, da isolare e contenere. Si tratta di un ribaltamento radicale del principio secondo cui la salute mentale è un bene comune da costruire insieme, non un disturbo da separare dallo sguardo della società.
Numerose voci della comunità scientifica — psichiatri, psicologi, operatori sociali — hanno già espresso preoccupazione per l’impostazione del ddl Zaffini. Il dibattito pubblico, tuttavia, appare ancora insufficiente. Serve una mobilitazione più ampia, capace di ricordare che la legge Basaglia non fu una parentesi ideologica, ma una conquista democratica che ha restituito dignità e futuro a migliaia di persone.

Non è un caso che questa spinta regressiva si accompagni ad altre forme di restrizione dei diritti, spesso rivolte a giovani, migranti e soggetti vulnerabili. In un tempo in cui si fatica a investire nella prevenzione, nella formazione degli operatori e nei servizi pubblici, la risposta rischia di diventare esclusivamente custodiale e punitiva.

Anche alla luce di eventi drammatici come il suicidio dello psicologo Francesco Occhiuto, figlio del Senatore e già sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, serve una nuova sensibilità collettiva. Una società che reprime la fragilità, invece di accoglierla, perde in umanità e in giustizia.

La salute mentale ha bisogno di cura, non di coercizione. Di diritti, non di recinti. Di ascolto, non di silenzi istituzionali.