Nelle carte dell’inchiesta la saga della famiglia nel confronto tra l’anziano capocosca e la moglie. Al centro delle tensioni l’accaparramento dei proventi illeciti, l’assenza di sostegno al nucleo familiare del capo e le divergenze sugli investimenti decisi dai giovani del gruppo
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Le carte dell’inchiesta “Res Tauro”, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, accendono i riflettori su un elemento finora meno raccontato della criminalità organizzata calabrese: la fragilità interna dei vertici mafiosi quando vengono a mancare i simboli di comando.
Dopo 22 anni di carcere, Giuseppe Piromalli, noto come “Facciazza”, torna in libertà e trova una cosca diversa da quella che aveva lasciato. Non più un'organizzazione compatta, ma una famiglia dilaniata da rancori, interessi personali e tradimenti interni.
Al centro del racconto giudiziario, i fratelli del boss – Antonio e Gioacchino Piromalli – indicati dallo stesso Giuseppe come principali responsabili di una gestione egoistica e disordinata della cosca durante la sua lunga detenzione.
Secondo gli inquirenti, i due fratelli, ben consapevoli della propria posizione all’interno dell’organizzazione, avrebbero approfittato del vuoto di potere per ritagliarsi fette sempre più ampie dei proventi illeciti, escludendo non solo il boss detenuto, ma anche la sua famiglia. A raccontare la situazione, in diverse conversazioni intercettate, è la moglie del boss, Maria Martino, che ricostruisce anni di ristrettezze economiche e abbandono da parte dei familiari più stretti.
«Mangia… ne mangia…», dice Giuseppe Piromalli in un dialogo riferendosi a Gioacchino, dimorante al primo piano del palazzo di famiglia. Un’accusa pesante: beneficiare dei profitti mafiosi senza aver assolto agli obblighi di sostegno, soprattutto nei confronti dei detenuti. Più duro ancora il giudizio nei confronti del fratello Antonio, al secondo piano dello stesso palazzo: «Doveva fare tre volte tanto… speculava sul nome…».
Secondo il boss, Antonio avrebbe capitalizzato l’autorevolezza del cognome Piromalli per trarne profitto personale, lasciando però il fratello e il nipote – anche lui detenuto – senza supporto legale o economico.
Il punto più grave di questa frattura emerge in una conversazione con la Martino, dove si fa riferimento al ruolo di Antonio Zito, intermediario che avrebbe consegnato parte degli introiti mafiosi a Gioacchino Piromalli, bypassando completamente il capofamiglia. “Mi hanno imbrogliato come quando non sapevo niente”, sbotta Facciazza, convinto che le quote spettanti a lui siano state dirottate ai fratelli e ai nipoti, senza alcuna rendicontazione o rispetto per la gerarchia mafiosa.
La frattura è tanto profonda da rendere grottesca la proposta di Gioacchino di “farsi vedere in paese” accanto al fratello appena tornato in libertà. Una proposta che Giuseppe rifiuta con sdegno: «Non ti voglio… doveva interessarsi… perché mangia…».
Tra i timori più evidenti dei fratelli Piromalli, non c’è la detenzione, ma l’aggressione ai patrimoni: a dimostrarlo è una scena riportata dagli inquirenti, quando Gioacchino si reca dalla cognata dopo una serie di arresti per chiedere che il fratello eviti di coltivare terreni riconducibili alla cosca. La priorità? Salvare i beni dalla confisca.
Infine, dalle carte emerge anche un conflitto generazionale. Giuseppe Piromalli rimprovera persino il figlio Antonio per una gestione poco accorta della cassa della cosca, sottolineando come una parte degli introiti fosse stata dirottata verso attività edilizie poco chiare, finanziate attraverso una figura legata ad ambienti mafiosi locali.
L’inchiesta Res Tauro squarcia il velo su un aspetto spesso taciuto della criminalità organizzata: le guerre intestine, non tra famiglie rivali, ma all’interno dello stesso sangue, dove fratelli si contendono potere, soldi e legittimità. Una ‘ndrangheta che non è più solo violenza e omertà, ma anche avidità e isolamento, soprattutto quando viene a mancare il “lupo” che per anni ha tenuto unito il branco.
In questo scenario, l’autorità mafiosa di Giuseppe Piromalli appare logorata e indebolita non dallo Stato, ma dal disinteresse dei suoi stessi fratelli. E mentre la repressione giudiziaria avanza, sono proprio queste crepe interne a mostrare il volto più vulnerabile delle cosche calabresi.